Ha suscitato molto clamore l’assegnazione del premio letterario più prestigioso, il Premio Nobel per la Letteratura, quest’anno, ad uno dei più grandi letterati della seconda metà del Novecento, almeno della lunga stagione a cavallo tra gli anni Settanta e oggi, Peter Handke.
E, come talvolta avviene per le polemiche che accompagnano i Premi Nobel, si è trattato di polemiche «estranee al merito», che esulano, cioè, dalla materia specifica del riconoscimento, in questo caso il valore, lo spessore e la portata dell’opera letteraria che viene riconosciuta, e che alludono invece ad atteggiamenti e scelte, pubbliche dichiarazioni o prese di posizione.
Nel caso di Peter Handke, essenzialmente tre sono le “colpe” che gli vengono attribuite: le prese di posizione a sostegno della Jugoslavia degli anni Novanta e, in particolare, la critica all’aggressione delle potenze occidentali ai danni del Paese; le affermazioni in difesa del presidente jugoslavo Slobodan Milošević, evidentemente contrarie al mainstreaming che da decenni si esercita meno nella ricostruzione di un quadro storico, contraddizioni e ambivalenze di una vicenda storica e politica, che nella demonizzazione del nemico di turno; le dichiarazioni rese sulla vicenda, dolorosissima e tragica, di Srebrenica, dichiarazioni che si inseriscono, a loro volta, nel dibattito che pure accompagna da sempre la lettura di quella tragedia, come dimostrano le diatribe legate alla definizione di quel massacro come «genocidio» e, ancora nel 2015, il fatto che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non abbia raggiunto il consenso su una risoluzione che definiva appunto genocidio tale massacro.
Direttamente chiamata in causa, l’Accademia Svedese ha difeso, per il tramite del suo segretario, la decisione inerente all’assegnazione del Nobel ad Handke, affermando che, per quanto Handke abbia in passato espresso «commenti provocatori, inopportuni e poco chiari su questioni politiche» (Handke stesso a proposito aveva precisato i contorni delle sue affermazioni, dichiarando di essersi espresso «solo da scrittore» e di non essere «un giornalista»), tuttavia «l’Accademia non ha trovato nelle sue opere niente che costituisca un attacco verso la società civile o contro il rispetto della uguaglianza di tutti», riportando così al merito della questione, il merito letterario, lo spessore e la portata, come si diceva, dell’opera letteraria che viene riconosciuta. E questo spessore e questa portata sono difficilmente discutibili.
Quella di Peter Handke è un’opera letteraria che attraversa cinque decenni, che accetta la sfida della provocazione estetica e letteraria, staccandosi dalla letteratura di impegno ma mostrando elementi di prossimità al marxismo e al pensiero della trasformazione, e che svolge una intensa riflessione, artistica e intellettuale, sul linguaggio, sulle sue forme e sulle sue convenzioni. La sua parabola artistica, contro le convenzioni e incline alla sperimentazione, attraversa i generi e fornisce un contributo importante ai generi che pure intende demistificare e superare. Lo rivela anzitutto nel teatro, al punto che il suo è stato definito un «teatro dell’anti-teatro» per lo scardinamento della tradizionale dialettica tra scena e pubblico, per la riduzione dell’azione sulla scena stessa, per il primato assegnato alla parola, ad una intensa e rigorosa ricerca linguistica (qui, soprattutto, gli Insulti al pubblico del 1966 e gli Irragionevoli in via di estinzione del 1973) che si associa anche ad una indagine sulle forme del vivere sociale e sui rapporti sociali, spesso segnati da alienazione e da incomunicabilità. E lo rivela altrettanto bene nella sua miglior prosa, che si mantiene in una specie di costante ambivalenza tra l’adozione di un linguaggio estremamente controllato, se non addirittura algido, una «lingua-scandaglio» con la quale cercare di rappresentare la più nitida associazione tra la parola e la cosa, la funzione intellettuale eminente della rappresentazione e della comunicazione del reale (non solo del reale sociale, ma anche del reale personale, intimo, persino psicologico), e un procedimento, apparentemente, “indiziario”, che pure non è nuovo nella letteratura del Novecento (si pensi a Borges, o a Kiš), laddove singoli oggetti o elementi minuti di realtà diventano il pre-supposto (il pre-testo) dello svolgimento di una materia letteraria più ampia e complessa, ancora una volta una indagine sul linguaggio e sulle relazioni tra le persone e la società (qui, soprattutto, Infelicità senza desideri, del 1972, un testo del dolore, legato al rapporto con la madre e alla morte della madre, che diventa anche l’occasione per esplorare appunto i contorni di questo dolore e di questa infelicità, ma anche la forma del cosiddetto romanzo-saggio, talvolta incline alla saggistica narrativa, come nel celebre Pomeriggio di uno scrittore, del 1987, splendida digressione sul lavoro della scrittura, talvolta più direttamente ascrivibile alla forma romanzo, come nel non meno famoso Il mio anno nella baia di nessuno, del 1994, che pure ritorna, in fondo, sulla stessa ragione, l’esplorazione del mondo attraverso la scrittura).
Ovviamente, vi sono sempre ragioni extra-letterarie che possono dettare critiche e perplessità; né gli stessi criteri di assegnazione del Nobel per la Letteratura possono sempre essere esenti da rimostranze o obiezioni (come, tra gli altri, il caso di Mario Luzi ha ben dimostrato, nel recente passato); ma dal punto di vista poetico e letterario, dello spessore e della portata, con il Nobel ad Handke, bene ha fatto l’Accademia a rivendicare la scelta compiuta.