All’inizio del terzo millennio, uno dei grandi nodi del modello capitalistico è giunto al pettine.
La relazione attività umane-natura ha da tempo superato i limiti necessari per permettere la rigenerazione del ciclo biologico, e la contraddizione ecologica si presenta in tutta la sua evidenza: mutamenti climatici ormai in atto e dovuti all’aumento della concentrazione di anidride carbonica e di altri gas nell’atmosfera, erosione ed impoverimento della fertilità dei suoli, distruzione delle foreste e diminuzione della biodiversità, inquinamenti industriali, contaminazione chimica dei prodotti agricoli, congestione delle città, produzione esponenziale e dispersione di rifiuti.
E, ancora, guerre globali per l’appropriazione delle risorse naturali e fenomeni di migrazione ambientale senza precedenti.
Se la consapevolezza della drammaticità della situazione sembra ormai aver raggiunto una diffusione sociale sufficiente a far scendere in piazza in tutto il mondo una nuova generazione di giovani e giovanissimi, le decisioni messe in campo dalle diverse classi dirigenti nazionali ed europee sono sconfortanti per la sproporzione fra entità del problema e misure approntate per affrontarlo.
La ragione sarebbe facilmente comprensibile, se solo si partisse dalla premessa dell’elaborazione sul tema di Andrè Gorz: “E’ impossibile evitare una catastrofe climatica senza rompere radicalmente con i metodi e la logica economica che sono condotti da centocinquant’anni”[1].
Se questo è vero, occorre avere chiaro come non sia possibile una soluzione solo tecnologica alla sfida del cambiamento climatico, bensì occorra una rimessa in discussione del capitalismo.
D’altronde, lungi dall’essere l’umanità sulla stessa barca, mentre la crisi climatica miete le sue vittime soprattutto nei paesi poveri e tra le fasce più disagiate della popolazione, i capitali finanziari vi hanno trovato da tempo nuovi e profittevoli territori di espansione.
Il mercato finanziario del carbonio
A partire dall’accordo di Kyoto, dietro il paravento del contrasto ai cambiamenti climatici e con l’obiettivo, attraverso il mercato, di ridurre le emissioni di anidride carbonica, sono stati avviati due nuovi meccanismi.
Il primo è il Sistema di Scambio delle Quote Emesse (ETS, Emissions Trading System); attraverso questo strumento, viene fissato un tetto al totale di anidride carbonica che ciascun Paese può emettere, stabilito il quale i paesi sottoscrittori dell’accordo, se superano la quota assegnata, possono acquistare sul mercato i permessi di emissione da quelli che emettono di meno. Non c’è di conseguenza nessun obbligo alla riduzione delle proprie emissioni: è sufficiente avere i soldi per comprare i permessi di emissioni per risultare fra i paesi virtuosi.
Il secondo è il Meccanismo per lo Sviluppo Pulito (Clean Development Mechanism); attraverso questo strumento, i produttori di anidride carbonica, invece di ridurre le proprie emissioni, possono finanziare progetti di riduzione di emissioni in altri paesi.
Il sistema ETS, nato nel 2005, è diventato un grande mercato finanziario: solo nel continente europeo, fra il 2010 e il 2015 sono state scambiate 480 miliardi di t di CO2 per un valore di 500 miliardi di euro.
Il sistema, che, a parole, si prefiggeva di far lievitare il prezzo del carbonio per favorire le innovazioni tecnologiche volte a ridurre le emissioni, si è di fatto rivelato un dispensatore di sussidi per i grandi produttori di CO2, sia perché l’offerta ha notevolmente superato la domanda, facendo crollare il prezzo, sia perché sono stati concessi un numero molto rilevante di permessi gratuiti. Inoltre, nella seconda fase (2008–2012) si è consentito ai produttori di energia elettrica di scaricare sui consumatori il futuro costo dell’adeguamento tecnologico, attraverso l’aumento dei prezzi, e relativa raccolta di risorse finanziarie tra i 23 ed i 71 miliardi di euro (in Italia, i cittadini hanno pagato 13,4 miliardi/anno in più per sussidiare le energie rinnovabili).
Nel 2013 vi erano sul mercato 2,2 miliardi di quote in eccesso: la Ue, per il timore di una crisi finanziaria, ne ha ritirate 900, con una spesa di 4,5 miliardi di euro; mentre, tra il 2021 e il 2030 è prevista un’assegnazione gratuita alle imprese di circa 6,3 miliardi di quote, per un valore di 160 miliardi di euro, al fine d’impedire il trasferimento dei siti di produzione al di fuori dell’Ue.
Il decantato meccanismo di tutela ambientale si è dunque rivelato per quello che era: uno strumento di speculazione finanziaria, un mercato di titoli nel quale oggi gli operatori possono comprare e vendere la CO2 non ancora prodotta.
Ma il business del clima non finisce qui: ammontano a diverse centinaia di miliardi i finanziamenti pubblici nazionali e internazionali, al punto che il cambiamento climatico è ormai considerato dai grandi capitali finanziari la nuova svolta economica da cui estrarre valore.
Per avere un’idea dell’interesse che la finanza internazionale mostra per le politiche climatiche, si può aprire la home page dell’FSB (Financial Stability Board). Gli scritti che trattano l’argomento clima, dal punto di vista finanziario, sono circa 3510. L’FSB fornisce informazioni agli investitori sulla possibilità di limitare i costi, ampliare le opportunità e ridurre i rischi degli investimenti nell’affare clima. Vi sono moltissime organizzazioni che gestiscono i fondi per il clima o che danno consulenze per gli investimenti. Il fondo per il clima dell’ONU convoglia miliardi di dollari per i progetti energetici nei paesi in via di sviluppo, le cui realizzazioni saranno ovviamente attuate dalle multinazionali occidentali.
Il business dei derivati climatici e dei bond catastrofe
La riassicurazione è lo strumento che usano le compagnie di assicurazione per assicurarsi a loro volta per la copertura di rischi che sarebbero intollerabili da sostenere persino per colossi del genere: catastrofi naturali, terremoti, tsunami, attentati.
Munich Re è una delle più antiche e grandi compagnie di riassicurazione: nel suo curriculum troviamo il pagamento delle conseguenze del terremoto di San Francisco nel 1906, dell’affondamento del Titanic e degli attacchi al World Trade Center a New York.
I ricercatori di Munich Re monitorano e analizzano ogni tipo di dato potenzialmente legato a un qualche rischio e i database della società contengono informazioni sui disastri già avvenuti, su quelli che stanno accadendo e su quelli che potrebbero accadere in futuro, raccogliendo dati su ogni terremoto e ogni scossa della crosta terrestre. oltre che sull’altezza delle onde degli oceani, le temperature dell’aria e dell’acqua, la direzione e la velocità delle correnti.
E’ probabile che in nessun altro posto della Terra i rischi climatici vengano studiati con così grande intensità e dettaglio. Ma, naturalmente, non allo scopo di aiutare la prevenzione o il soccorso alle popolazioni eventualmente colpite, bensì per capire dove porre l’asticella dell’azzardo per estrarre profitti da dati e previsioni.
Oggi, in piena crisi climatica, il legame tra assicurazioni e finanza è sempre più saldo, e i titoli finanziari di trasferimento dei rischi climatici, i derivati climatici e le obbligazioni catastrofe, sono ormai ampiamente utilizzati.
Nel novembre del 2013 il super-tifone Haiyan colpì le Filippine: 8000 tra morti e dispersi, più di un milione di case colpite – di cui 550.000 completamente spazzate via – danni stimati per 13 miliardi di dollari.
Tre mesi dopo il tifone, Munich Re e Willis Re, un’altra società di riassicurazione, fiutarono l’opportunità e si presentarono al senato federale. Accompagnati da alcuni rappresentanti delle Nazioni Unite, proposero al parlamento un nuovo prodotto finanziario, PRISM – Philippines risk and insurance scheme for municipalities.
Come ha raccontato Razmig Keucheyan, professore di sociologia all’Università di Bordeaux[2], PRISM è uno schema assicurativo ideato su misura per supplire alle mancanze di liquidità nelle casse dello Stato filippino piegato dalle catastrofi climatiche e incapace di risarcire le vittime o persino di ricostruire le proprie infrastrutture.
La geometria di PRISM è tutto sommato simile a quella dei titoli spazzatura: prevede che lo Stato si metta a vendere insurance bond ai privati, titoli dal rendimento elevato e ad alto rischio. Nel caso in cui gli eventi atmosferici superino una certa entità e gravità prestabilita, i privati perdono tutto. Una sorta di scommessa sulla catastrofe (rischiosa anche nel senso che sin dall’inizio non era chiaro neanche da dove le Filippine avrebbero preso i soldi per pagare eventuali premi assicurativi in caso di mancati diluvi e uragani).
Strumenti finanziari come i “derivati climatici” (weather derivates) e le “obbligazioni catastrofe” (catastrophe bond) sono ormai in uso in Messico, Turchia, Cile e Alabama (post-Katrina).
Di fatto, scrive Keucheyan, citando Gramsci: ”[…] le crisi sono sempre momenti ambivalenti per il capitalismo – se da un lato rappresentano un rischio per la sopravvivenza del sistema, dall’altro sono anche occasioni per creare nuove opportunità di profitto.
E così, davanti a una crisi potenzialmente letale come quella climatica, che potrebbe portare a ridiscutere le basi di un sistema non più sostenibile, il sistema stesso si sta riorganizzando per trovare nuovi modi di riassorbire l’emergenza senza doversi per questo mettere in discussione”.
Sembra molto evidente come da parte dei grandi capitali finanziari non si tratta di salvare il pianeta, ma di salvare il capitalismo facendo finta di salvare il pianeta.
Marco Bersani
[1] A. Gorz, Capitalismo, socialismo, ecologia, Manifestolibri, Roma 1992
[2] R. Keucheyan, La natura è un campo di battaglia, Ombre Corte, Verona 2019
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 42 di Novembre – Dicembre 2019. “Il Sol dell’avvenire e l’avvenire del Sole“