In confronto agli introiti di Zuckerberg, le paghe dei dirigenti italiani impallidiscono. I redditi del giovane amministratore delegato di Facebook, nel 2012 sono ammontati a 2,2 miliardi di dollari, ma quasi tutti provenienti dalla rivalutazione del suo pacchetto azionario. Lo stipendio vero e proprio, quello fisso, è stato di 500 mila dollari.
Dopo Zuckerberg, l’amministratore delegato che nel 2012 ha guadagnato di più negli Stati Uniti è stato Richard Kinger, a capo dell’impresa energetica Kinder Morgan. Kinger ha portato a casa oltre un miliardo di dollari, ma il suo salario fisso è di appena 1 dollaro all’anno. Praticamente i suoi redditi derivano tutte da provvigioni, dividendi e rivalutazioni di capitale.
Diversa la posizione degli amministratori delegati delle imprese pubbliche italiane i cui guadagni sono formati prevalentemente da stipendio fisso. Ben 6 milioni e mezzo a Paolo Scaroni amministratore delegato di ENI, 3,9 a Fulvio Conti amministratore di Enel, 2,3 a Flavio Cattaneo capo di Terna, 2,2 a Massimo Sarni capo di Poste Italiane, 1 a Giovanni Tempini amministratore di Cassa Depositi e Prestiti.
Il povero Moretti prende appena, si fa per dire, 873mila, e da buon ultimo ha protestato all’idea che gli stipendi dei manager pubblici debbano rimanere al di sotto di 311 mila euro all’anno corrisposti al primo presidente di cassazione. Moretti protesta perché il suo omologo tedesco prende tre volte tanto. In effetti Rüediger Grube, amministratore delegato di Deutsche Bahn guadagna di media 2 milioni e rotti all’anno, ma lo stipendio fisso è 900 mila euro. Il resto proviene da risultati d’impresa che ovviamente Moretti non può rivendicare viste le condizioni disastrose in cui versa la rete ferroviaria italiana.
In ogni caso Moretti prende quasi quattro volte lo stipendio di Napolitano e quasi tre volte lo stipendio di Barroso che ammonta a 300mila euro all’anno, spese escluse.
Tutti stipendi vergognosi se confrontati con gli stipendi dei lavoratori medi italiani che ammontano a un lordo di 20-25 mila euro all’anno. Sarà anche vero che riducendo gli stipendi dei dirigenti, dei politici e di tutti gli altri privilegiati dell’apparato pubblico, non si raggranellerebbero così tanti soldi da poter fare aumentare sensibilmente le pensioni sociali che per il 2014 sono state fissate a 5818 euro all’anno, 447 al mese. Praticamente al di sotto della soglia della povertà assoluta. Ma sul piano del principio sarebbe una rivoluzione. Finalmente si affermerebbe il principio che quando il paese è in difficoltà non si cerca di uscirne buttando i sacrifici sui più deboli, ma sui più forti, cominciando a togliere i privilegi e riducendo le differenze di ricchezza che oggi sono a livello scandaloso.
Se fossimo stati capaci di un po’ di giustizia, avremmo anche evitato l’austerità che oggi ci sta strangolando, perché avremmo imposto parte delle rinunce ai creditori che invece oggi sono superprotetti.
Ma avremmo anche evitato di demolire la democrazia. Perché, diciamocelo chiaramente, tutte le manomissioni che si stanno facendo alla struttura istituzionale e politica in Italia, a cominciare dallo smantellamento delle province fino all’annullamento del Senato, di fatto stanno riducendo la rappresentanza e il controllo popolare, per concentrare il potere sempre più nelle mani di pochi. Ne è una triste conferma la legge elettorale in via di approvazione che nega la mancanza di rappresentanza a qualsiasi forza autonoma che stia al di sotto dell’8%. Una vera restrizione di democrazia portata avanti in nome dei risparmi di spesa.
Ma è tempo di dire che a costare non è la democrazia. A costarci, e anche tanto, da tutti i punti di vista, sono i privilegi che questa classe politica non vuole abbandonare.
Rottamare i privilegi per salvare la democrazia
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