Lucy, nata in Gran Bretagna, ha conosciuto il marito, palestinese, all’università. Nel 1978, dopo il matrimonio, si sono trasferiti a Gerusalemme. Ho sempre amato nuove esperienze, ha commentato con un gran sorriso. Aveva avuto qualche primo contatto con la metodologia della nonviolenza da studentessa alle superiori, attraverso la Fellowship of Reconciliation.
Ha insegnato Studi Culturali e Storia delle Idee all’università di Bir Zeit, in Palestina. Discipline tra l’altro ideali per la conoscenza della lingua e della cultura locali. Ha fatto parte anche del Centro Palestinese per lo Studio della Nonviolenza, fondato da Mubarak Awad, che propugnava strategie nonviolente durante la prima Intifada. Uno studio condotto dal Centro, e pubblicato dal New York Times, dimostrò che i palestinesi erano contro il terrorismo.
Dopo che Awad è stato deportato dalle autorità israeliane, lei ha continuato il lavoro, fondando vari campi durante il Processo di pace del 1997, anche se poi, con il fallimento di quel processo i campi misti non hanno dato validi contributi alla comprensione israelo-palestinese e anzi, secondo il suo punto di vista, sono stati piuttosto controproducenti. Quando scoppiò la violenza, si rese conto con disappunto che i professionisti impegnati nei campi non comunicavano più tra di loro. A quel punto decise che la miglior cosa da fare era lavorare separatamente, e propose quindi un lavoro sulla risoluzione della conflittualità nelle scuole palestinesi. Fu difficile trovare finanziamenti, ma almeno riuscì a convincere gli insegnanti che quella preparazione sulla risoluzione dei conflitti portava anche a un miglioramente dal punto di vista dell’insegnamento.
Scoprì inoltre che in Palestina esisteva una lunga tradizione di nonviolenza di cui la maggior parte delle persone ignorava l’esistenza. Grazie a una sovvenzione, istituì una ONG con lo scopo di operare nelle scuole palestinesi per ridurre la violenza. Ha sperimentato vari metodi in diverse scuole, allo stesso tempo cercando di dare alle ragazze maggiori possibilità di continuare gli studi. In alcuni dei suoi campi erano presenti palestinesi insieme a neri dal Sudafrica e bambini traumatizzati provenienti dall’Irlanda del Nord.
Al culmine delle violenze, Fatah l’ha contattata per conoscere meglio il metodo della nonviolenza. Lei ha fatto arrivare istruttori da tutto il mondo, con il finanziamento di Usaid e Unione Europea. La rete di Nonviolenza attiva (ANV, Active Nonviolence) operava a vari livelli, per esempio con soap opera radiofoniche, o adesivi per auto (“Smarter without Violence”): in tutto, 198 metodi, il potere della nonviolenza. Intorno al 2007 ha collaborato ad alto livello, con attivisti del West Bank, sulla sicurezza personale e dei media, ricevendo anche una visita del figlio di Martin Luther King a sostegno del processo. Il suo obiettivo è umanizzare le persone in situazioni di conflitto, avendo notato che gli stereotipi disumanizzanti tipici di ogni conflitto cominciano ad essere presenti già all’età di 3 anni sia tra i bambini palestinesi che tra quelli israeliani.
All’inizio, la maggior parte delle persone era scettica sulla nonviolenza, mentre “ora, tutti ne parlano”.
**Speranze e progetti per il futuro**
Lucy vuole vedere la creazione di un ministro per la Nonviolenza e di un dipartimento per i giovani che possa informare sull’ANV in un contesto di grande attività, senso di appartenenza e di speranza per il futuro, le cose di cui hanno bisogno i giovani per uno sviluppo sano. E vuole realizzare tutto ciò attraverso attività comunitarie che vedano insieme musulmani e cristiani, e attraverso l’acquisizione di nuove abilità. Magari con l’aiuto della Lega Araba, con lo sviluppo di un “manuale di istruzioni”. Ha potuto osservare un alto livello di individualismo e apatia che derivano da frustrazione. Uno dei punti del progetto con gli israeliani è stato sviluppare documentazione per gli insegnanti sulla tolleranza, la coesistenza, i diritti umani.
Dopo l’uccisione di un leader palestinese c’erano stati una serie di attacchi suicidi. Ora si sono fermati, e molti pensano sia a causa del muro. Lei crede invece che sia grazie alle campagne, è convinta che la violenza non sia più politicamente accettabile. Comunque, parte del suo lavoro è stato anche discutere la nonviolenza insieme agli aspiranti attentatori suicidi e alle loro famiglie, riuscendo a stimolare in loro almeno in parte un attivismo nonviolento al posto della violenza.
Vorrebbe anche vedere meno assenteismo scolastico, e più possibilità di studio per le ragazze che spesso non hanno un posto dove studiare. Sta cercando di istituire un Dipartimento di giornalismo per insegnare giornalismo e nuovi organi di informazione. I suoi progetti sono stati bloccati per due volte dagli israeliani, con l’accusa di essere sostenuti dall’Autorità Palestinese, mentre in realtà i progetti sono dell’università. Con la scusa che “interferiva con il traffico aereo”, è stata inoltre sequestrata una trasmittente: eppure le frequenze erano diverse.
Ma, nonostante le difficoltà, il suo impegno per la nonviolenza come strumento per raggiungere un accordo equo per la sua patria e il suo popolo d’adozione è andato crescendo. Non abbiamo esaminato nessun modello durante la chiacchierata. Nessuna soluzione, due stati o federazione, o altro, al momento sembra essere a portata di mano, e questo è motivo di grande frustrazione, ma è convinta che il suo lavoro educativo sulla nonviolenza sia essenziale per il benessere del suo popolo.
Traduzione dall’inglese di Giuseppina Vecchia