Brucia il pianeta, dice Greta Thunberg, che ha riacceso gli animi pacifici della lotta ambientale. Si resta col fiato sospeso a Hong Kong, in cui è stata scartata in modo definitivo la proposta di legge sull’estradizione, che ha generato mesi di proteste. Si manifesta, da oltre una settimana, in Libano “per cambiare il sistema”. Dopo Quito, in Ecuador, si infiamma Santiago del Cile contro le disuguaglianze e la privatizzazione di risorse naturali e servizi.
Si riaccende a Barcellona l’antico risentimento catalano, con l’occupazione dell’aeroporto “come a Hong Kong”. Si muove la grande onda femminista, toccando luoghi lontani fra loro, da Seul, a Belfast e New Delhi. A Londra, da decenni centro delle mobilitazioni europee, si marcia anche per il proprio destino, in bilico a causa della Brexit. E si eleva l’urlo dei più poveri, in paesi martoriati da conflitti e miseria come Haiti e l’Iraq.
Pur nelle differenze dei contesti, i giovani non sono i soli a manifestare, ma in prima linea.
Si ribellano a disuguaglianze, corruzione, repressione delle libertà, emergenze climatiche. E sembra delinearsi, un po’ ovunque, una contrapposizione fra pacifisti e violenti, idealisti e nichilisti. Da una parte l’icona umana e positiva di Greta e dall’altra la metafora nichilista dell’ultimo Joker hollywoodiano.
Chi, vedendo le folle inferocite nel film di Todd Philips, non ha temuto un ritorno dei terrorismi anche nella vita reale? “Ecco che cosa può fare un malato psichico se avversato dalla società”, dice il clown agli spettatori. Tuttavia, in gran parte delle rivolte in corso, è prevalso uno strenuo attaccamento alla non violenza.
I giovani manifestanti dell’era post-globale sembrano preferire il dissenso radicale ma pacifico. Hanno tenuto duro gli hongkonger, i cittadini che vogliono preservare l’autonomia di Hong Kong dalla Cina. Nonostante i proiettili di gomma sparati ad altezza uomo, i gas lacrimogeni, i pestaggi e gli arresti della polizia, la maggior parte dei manifestanti ha marciato pacificamente. Qualcuno ha indossato la maschera di Joker. Altri hanno lanciato pietre e oggetti, ma i più hanno saputo mantenere un atteggiamento difensivo.
Nel Cile delle disuguaglianze e delle privatizzazioni (l’acqua, per esempio) più estreme, sono morte almeno 21 persone in otto giorni (dal 18 ottobre) di proteste e repressione.
Il governo del conservatore Sebastián Piñera ha inviato militari e carri armati per le strade, come non accadeva dal 1990. Si è temuto il peggio: il ritorno del fantasma del dittatore Augusto Pinochet, al potere dal 1971 al 1988. Nel Libano, sfiancato dalla crisi economica e dalla corruzione dei leader, i ragazzi hanno organizzato proteste creative, utilizzando l’arte e la musica come veicoli di dialogo.
E pacifici ma tenaci, in lotta contro l’emergenza climatica, restano gli studenti di Fridays for future, i “disobbedienti” di Extinction Rebellion e gli statunitensi di Sunrise Movement.
Le proteste dagli anni Novanta a oggi
Da almeno quindici anni non si registravano tante proteste, così intense, in diversi punti del pianeta. Chi è stato ragazzo fra gli anni Novanta e i primi Duemila, inevitabilmente ripensa alle rivolte di Seattle nel 1999, durante il summit dell’Organizzazione mondiale del commercio (World trade organization, Wto). Fu allora che si cominciò a criticare aspramente il modello economico oggi chiamato “turbocapitalismo”. Ne scaturirono i confronti pacifici dei Forum sociali mondiali (World social forum) per una globalizzazione alternativa, ma anche le reazioni violente degli estremisti black bloc. Nei forum internazionali confluivano da ogni latitudine centinaia di associazioni in difesa dei diritti umani, civili e ambientali. Dal 2001 il loro motto è stato “un altro mondo è possibile”.
Un mondo governato da politiche democratiche, piuttosto che dagli interessi delle multinazionali. Un mondo equo, eco-sostenibile, solidale, pacifista. Infatti, si andava in corteo contro le guerre, propagandate come “giuste”, ma rivelatesi fondate su bugie, come in Iraq, o drammatici fallimenti, come in Afghanistan.
E poi? In seguito alla repressione dei dimostranti “new-global” durante il G8 di Genova, la fiamma dei movimenti si è gradualmente affievolita. I negazionisti pagati dalle Big Company del petrolio, degli idrocarburi e dell’agroalimentare, hanno oscurato gli scienziati che denunciavano i cambiamenti climatici. Le primavere arabe si sono presto trasformate – quasi tutte – in lunghissimi inverni. Le voci democratiche sono state schiacciate dal giogo di dittatori, coalizioni di potenze senza visione e senza scrupoli, eserciti di fondamentalisti islamici e mercenari venuti da ogni dove, i cosiddetti foreign fighter.
Come sostiene il politologo Olivier Roy, si è in parte sprofondati nel nichilismo. Dalle gang messicane ai tagliagole dell’Isis, si è attinto al disagio psichico e sociale per reclutare ragazzi per i quali niente conta, neppure la vita.
D’altra parte, come sosteneva la compianta filosofa ungherese Agnes Heller, anche in Occidente si è smesso di lottare per la democrazia. Negli anni Dieci del secondo millennio, il movimento più esteso contro le disuguaglianze è stato quello di Occupy Wall Street, dove si è lanciato lo slogan: “Siamo il 99 per cento”, contro l’un per cento che detiene le ricchezze del pianeta. È proprio in questi ultimi anni, però, che il ciclone delle destre estreme e populiste si è abbattuto sulle democrazie più ricche, anche se afflitte dalla grande crisi finanziaria del 2008-2010. Con l’elezione di Donald Trump a presidente della prima potenza economica, l’avanzata di nazifascisti, suprematisti e sovranisti, i valori repubblicani hanno vacillato davanti agli occhi di tutti. Dobbiamo ricordarci – come sosteneva Heller – che le basi democratiche possono essere attaccate in ogni momento. Alle fondamenta della nostra casa dei diritti serve una manutenzione attiva.
L’idealismo vincerà sul nichilismo? L’analisi
Una giornalista cilena che ha lavorato per media e ong ecologiste, Andrea Nuñez, ci aiuta ad analizzare le rivolte. Avendo vissuto fra Santiago, Barcellona e Milano, spiega così l’accostamento fra bene e male nelle proteste sociali: “In tutte le grandi manifestazioni ci possono essere componenti violente. In Cile, le chiamiamo ‘lumpen’. Si tratta di settori popolari privi di coscienza sociale, a cui appartengono criminali comuni, vandali, trafficanti di droga. Approfittano del caos per compiere saccheggi, rubare o appiccare incendi. Non credono in niente, ma la risposta a questi violenti deve essere sistemica”.
Come racconta il film Joker, aggiunge Nuñez: “Non si giustifica mai la violenza, a maggior ragione contro gli innocenti. Ma è utile ricordare che si tratta di gruppi che lo Stato ha emarginato, rifiutato e che indirettamente ha contribuito a creare. In Cile (come anche ad Hong Kong e in altre zone, ndr) sta protestando, soprattutto, una cittadinanza pacifica molto estesa e variegata. Gente della classe media, studenti, pensionati, famiglie con bambini. Mentre loro si ribellavano suonando le batterie delle pentole, la polizia ha picchiato dei ragazzini di 12 anni. Questo andrebbe raccontato”.
La non violenza fa meno notizia della violenza. “Sì. E bisogna tenere conto dell’utilizzo – tipicamente cileno – degli infiltrati. Ci sono sempre stati fin dai tempi della dittatura: poliziotti in borghese con l’ordine di scatenare il caos. Bruciano automobili, innescano agitazioni. Li ricordo bene durante le manifestazioni degli anni Ottanta contro Pinochet”.
La fiamma dei movimenti sembrava spenta, ma la brace era ancora lì. E adesso, quindici o venti anni dopo, ci ritroviamo ancora in una “società in crisi” come scrive la giornalista Naomi Klein. Anzi, rispetto al 2001, quando fu pubblicato il suo libro “No Logo”, manifesto dei new-global, è aumentato il divario fra ricchi e poveri, e lo sfruttamento delle risorse umane e naturali. “Quindi avevamo ragione noi? Sì, ma non avevate nient’altro”, ha scritto in una celebre vignetta Mauro Biani sui fatti di Genova.
E, come ha spiegato Nuñez, i media sono responsabili nella diffusione di notizie parziali e distorte, se non false.
A questo proposito, nel suo ultimo saggio “Il mondo in fiamme”, Naomi Klein regala un ritratto poco noto ed emblematico di Greta Thunberg, partendo dal suo disagio psichico: “Come tanti suoi colleghi, Greta ha iniziato a conoscere il cambiamento climatico quando aveva circa otto anni…ed è diventata un’ossessione […] A undici anni era gravemente depressa. Contribuivano tante cose al suo malessere, alcune legate all’essere diversa in un sistema scolastico che si aspetta che tutti gli alunni siano pressoché uguali (“Ero la ragazzina invisibile dell’ultimo banco”).
Ma c’erano anche il grande dolore e l’impotenza riguardo lo stato del pianeta, e l’inesplicabile inerzia di chi aveva il potere di combinare qualcosa di serio. Greta Thunberg smise di mangiare e parlare. Era molto malata. Alla fine le diagnosticarono un mutismo selettivo e un disordine ossessivo-compulsivo, oltre a una forma di autismo che viene chiamata sindrome di Asperger”. Ma Greta, come altri ragazzi diversi e speciali, ha trovato aiuto nella sua famiglia, quello che manca ai giovani Joker emarginati.
Da Hong Kong al Cile, il web è pieno di immagini di minorenni nelle piazze. Non erano mai stati così tanti. La scintilla dell’archetipo Greta si è trasformata in un entusiasmo incendiario, che questa volta crea e non distrugge.
Di Francesca Lancini per LifeGate