Kiev, Piazza Indipendenza (foto da Télam)
di Alberto Cacopardo
La Crimea è passata alla Russia fra inni di gioia e strepiti di deplorazione. La divisione dell’Ucraina prospettata vent’anni fa da Samuel Huntington, da oggi, con la ratifica del parlamento russo, è un dato di fatto. Con questo, la drammatica crisi di quel paese giunge ad un suo primo punto d’approdo.
Il coro dei media mainstream occidentali accusa Putin di neozarismo, lo imputa di aggressione militare, invoca le sanzioni, mentre l’amministrazione americana si permette, con faccia di bronzo veramente berlusconiana, di gridare alla violazione di quel diritto internazionale che essa stessa ha sistematicamente stracciato da vent’anni a questa parte, in Iraq, in Kossovo, in Afghanistan, e, non meno gravemente, in Pakistan con gli attacchi dei droni. Lasciamo stare il diritto internazionale, che meriterebbe ben altra considerazione.
Nella rappresentazione dei media occidentali, la vicenda si può riassumere così: il popolo ucraino ha democraticamente scelto, assembrandosi con grande entusiasmo e determinazione in piazza Maidan, di legarsi all’Europa anziché alla Russia e di abbattere un despota che non si adeguava; il despota è fuggito esautorato dal parlamento; è stato instaurato un governo approvato dal parlamento e dal popolo, dopodiché la Russia ha invaso la Crimea, ha indetto un referendum illegale ed ha sottratto col sopruso la penisola all’Ucraina.
C’è qualcosa da dire su ognuna di queste proposizioni.
Innanzitutto l’idea che la piazza rappresenti il popolo è quanto meno avventata. Nel 1968 le piazze e le strade di Parigi erano invase di barricate e di giovani entusiasti che chiedevano un cambiamento rivoluzionario con grande entusiasmo e determinazione. La Francia sembrava trascinata: ma quando in giugno si tenne il referendum di De Gaulle, il popolo votò contro la piazza e la rivoluzione naufragò. In democrazia, la piazza propone, il voto dispone. E non è che in Ucraina non si fosse mai votato sull’argomento in questione. Al contrario, tutte le elezioni tenute dall’indipendenza in poi erano state imperniate sulla scelta fra Russia e Occidente. E poiché il paese è spaccato quasi esattamente a metà fra filorussi (prevalentemente ortodossi e russofoni) e antirussi (prevalentemente cattolici uniati e parlanti ucraino), in tutte le elezioni l’una o l’altra parte aveva vinto di strettissima misura. Sempre con poco più della metà dei voti, nel 1994 il russofilo Kuchma aveva sconfitto Kravchuk; nel 1999, lo stesso Kuchma batté Simonenko grazie stavolta al sostegno antirusso delle province occidentali; nel 2004 il russofilo Janukovich vinse di stretta misura contro il filoccidentale Yuschenko, ma in seguito alla “rivoluzione arancione”, le elezioni furono ripetute e vinse Yuschenko; nel 2010, Janukovich sconfisse Julia Timoschenko per quattro punti percentuali. Per i fan dell’alternanza, un bell’esempio.
Possiamo aggiungere che un recente
sondaggio del novembre 2013 aveva trovato solo un 45% favorevole al famoso accordo di associazione con l’Unione Europea, mentre il 14% ne voleva uno con la Russia e il 41% nessuno dei due. In sintesi, l’Ucraina era un paese democratico spaccato a metà, non un popolo in rivolta contro una dittatura.
In secondo luogo, esaminiamo i fatidici eventi di Kiev fra il 20 e il 21 febbraio, giorno della fuga di Janukovich.
Da tre lunghi mesi la piazza è occupata dai manifestanti europeisti che protestano contro il rifiuto di Janukovich di firmare l’accordo di associazione con l’Ue. Il sostegno occidentale, e soprattutto americano, a questa opposizione (che, ricordiamolo, in base a quel sondaggio e ai dati elettorali, rappresentava solo una grossa minoranza) è stato aperto e intensissimo. Il 13 dicembre 2013,
Victoria Nuland, moglie del neo-con Robert Kagan e sottosegretario agli Esteri del governo Obama, appena rientrata a Washington dal suo terzo viaggio in Ucraina in cinque settimane, dichiara che “il popolo ucraino non sosterrà più un presidente che non lo porti all’Europa” e che gli Stati Uniti lo appoggiano fermamente in questa scelta. Dichiara di aver personalmente intimato a Janukovich di firmare l’associazione alla Ue e di accettare le riforme disegnate dal Fondo Monetario Internazionale. Inneggia all’”energia e all’ottimismo” dei manifestanti “pacifici” e rivela che gli Stati Uniti hanno investito oltre cinque miliardi di dollari negli ultimi vent’anni per dare all’Ucraina “il futuro che si merita”. Il discorso della Nuland è una dichiarazione di guerra a Janukovich e alla Russia che lo sostiene. Già, perché le guerre più pericolose oggi non si combattono coi bombardieri, ma incoraggiando, istigando, finanziando e sostenendo in tutti i modi le opposizioni interne alle forze politiche che non si allineano a Washington.
Arrivati a febbraio, dopo qualche grave eccesso repressivo e qualche limitato spargimento di sangue, la piazza non è più così pacifica. Le forze di destra, soprattutto del partito paranazista Svoboda, hanno militarizzato le difese di Maidan e molti manifestanti sono armati di armi nuovissime, fucili e pistole. Per capire come sono andate le cose, sarebbe essenziale sapere da chi sono arrivate quelle armi, ma pochi se ne sono preoccupati. E’ ovvio che ci sia la mano di qualche servizio segreto, e non certo di parte russa.
Il 20 febbraio la tensione sale alle stelle quando dei cecchini sparano sulla folla di Maidan dall’alto di edifici circostanti, uccidendo dozzine di persone. Gli spari vengono naturalmente attribuiti ai governativi, ma la cosa è tutt’altro che chiara. Giorni dopo, il ministro degli Esteri estone Urmas Paet informava Catherine Ashton, responsabile Esteri Ue, che stando alle sue fonti, i cecchini erano stati piazzati non dal governo, ma dall’opposizione. La cosa non è certa, ma appare piuttosto probabile, se si confrontano, con l’aiuto di
Giulietto Chiesa, gli eventi molto simili accaduti a Vilnius il 15 gennaio 1991, quando il leader antirusso Audrius Butkevicius organizzò, per sua stessa successiva ammissione, un massacro di manifestanti a fucilate, allo scopo di attribuirlo ai russi e suscitare la generale indignazione del paese.
Di certo, il 20 febbraio, a Kiev l’indignazione è immensa e gli eventi precipitano.
La mattina del giorno dopo, giunge l’annuncio che nella notte è stato raggiunto un accordo fra Janukovich e le forze di opposizione con la mediazione dei ministri degli Esteri di Francia, Germania e Polonia convenuti a Kiev. La notizia è smentita di lì a poco: per tutta la mattinata le trattative continuano frenetiche, mentre in parlamento, fra boati di urla e grida, si scatenano risse a pugni e calci.
Intorno alle tre di pomeriggio arriva l’annuncio dell’accordo che prevede il ritiro delle forze governative da piazza Maidan, lo scioglimento delle manifestazioni e la consegna delle armi illecite, una riforma costituzionale, la formazione di un nuovo governo di unità nazionale ed elezioni a breve termine. Gli Stati Uniti, a quanto pare, non erano stati invitati al negoziato.
Quasi contenporaneamente, le forze di polizia svaniscono come per incanto da piazza Maidan e da tutta la città per non ricomparire fino alla fine del dramma. A piazza Maidan l’accordo è accolto con fischi e urla: il sentimento dei manifestanti sembra nettamente contrario, si chiedono le immediate dimissioni del presidente.
Intanto in parlamento è successo qualcosa di strano: almeno una quarantina di deputati di Janukovich sono passati all’opposizione e in quell’esagitata assemblea si è creata una nuova maggioranza, che in brevissimo tempo vota il ritorno alla costituzione del 2004, esautora il ministro dell’interno e delibera la scarcerazione di Julya Timoschenko.
A sera, il comandante militare della Nato Philip Breedlove, che da due giorni era in contatto con i militari ucraini, annuncia di aver avuto una “conversazione positiva” col capo di stato maggiore ucraino Yuri Llyin. Poco dopo il ministro della Difesa Hagel loda i militari ucraini per essersi astenuti da ogni intervento.
Intorno alle venti, a piazza Maidan, un anonimo comandante dell’autodifesa sale sul palco e raccoglie un fragore di applausi lanciando un ultimatum a Janukovic: “Se non se ne va entro domani alle dieci, attaccheremo in armi.”
A mezzanotte ora di Kiev arriva, dal Dipartimento di Stato americano, la notizia della fuga di Janukovich. Il giorno dopo sarà esautorato dal parlamento. (Principale fonte di questa ricostruzione:
The Guardian).
Questo insieme di eventi è molto strano. Scrivemmo su questo blog proprio quel giorno, prima di quest’ultimo evento: “L’accordo raggiunto oggi fra l’opposizione ucraina e il governo di Janukovich lascia sperare finalmente in una pacificazione di quel tormentato paese. Ma purtroppo le speranze non sono molto solide. Perché il destino dell’Ucraina dipende assai più dagli atti di Stati Uniti ed Europa che non dalle decisioni del governo o dei manifestanti.”
Forse non avevamo tutti i torti. E’ troppo audace sospettare che gli Stati Uniti non abbiano apprezzato tanto l’accordo mediato dagli europei? Perché Janukovich è fuggito prima che il parlamento lo esautorasse? C’è una sola spiegazione: aveva perso l’appoggio di tutte le sue forze armate e temeva di fare la fine di Gheddafi. E come mai il voltafaccia delle forze armate e del parlamento proprio quando l’accordo era stato raggiunto? Che gli Stati Uniti abbiano avuto qualcosa a che fare col voltafaccia delle forze armate, ce lo dice lo stesso generale Breedlove. E’ possibile che abbiano avuto a che fare anche col voltafaccia del parlamento? E la strage del 20 febbraio?
Le domande sono tante, le risposte poche. Quello che è certo è che a decidere il destino del paese in quei giorni fatidici non è stata la volontà democratica del popolo ucraino, ma un insieme di manovre poco chiare su cui forse non si saprà mai la verità. E che in queste manovre sia stata pesantissima l’interferenza americana, tutto lo testimonia, a partire da Victoria Nuland.
Che davanti a tutto questo la Russia abbia provato risentimento, è il minimo che ci si possa aspettare. Come il minimo che ci si potesse aspettare era la reazione in Crimea, ovviamente da tempo preparata. Pochi ricordano che il parlamento di Crimea aveva già votato la secessione dall’Ucraina nel 1992 e che poco dopo la Russia aveva revocato l’atto di cessione della provincia a Kiev adottato da Kruschev quarant’anni prima. Poi, con la vittoria del filorusso Kuchma, la cosa era stata lasciata cadere: forse perché senza la Crimea i filorussi non avrebbero mai vinto nemmeno un’elezione.
Se oggi la Crimea è passata alla Russia, questo significa che mai più i filorussi vinceranno un’elezione in Ucraina. La Russia ha rinunciato a quella battaglia, che aveva combattuto per vent’anni, e questa è la cosa che conta.
Se i mercati finanziari si sono curati appena del dramma ucraino finora, se non si sono allarmati più di tanto per la Crimea, è perché sanno bene che non c’è stata alcuna vittoria della Russia: c’è una vittoria schiacciante degli Stati Uniti d’America.
Adesso, la vera incognita che resta da sciogliere è che cosa ne sarà delle province orientali. Quello che non è chiaro in questo momento è se la Russia si contenterà della Crimea o se farà di tutto per guadagnare anche Kharkiv, Donetsk e le altre province filorusse. Tutto lascia pensare che gli Stati Uniti abbiano già fatto tutto il necessario per assicurarle alla nuova Ucraina. Ma c’è da temere, prima o poi, nuovi sommovimenti, perché troppo forte è il legame di quelle regioni con Mosca. Arrivati a questo punto, quel che sarebbe giusto ed equo, e che ci risparmierebbe ulteriori pericolose tensioni, sarebbe rimettere democraticamente la scelta ai loro abitanti, con dei referendum liberi e regolari provincia per provincia. E’ bene ricordare che vent’anni fa il profetico Huntington dava per scontato che, in caso di spaccatura, quelle province sarebbero andate alla Russia.
Comunque vada, la vicenda è triste: perché tutti i guai dell’Ucraina sono nati soltanto dalla scelta americana di eleggere la Russia post-comunista a proprio nemico, di mantenere in vita la Nato e tutto il loro apparato militare a premere sui confini di quel paese, di concepire l’ingresso in Europa dei paesi dell’Est come un atto in contrasto alla Russia, di coltivare quell’ostilità come uno dei pilastri della loro visione geopolica. Senza quella scelta, la politica di inclusione dell’Unione Europea si sarebbe potuta estendere alla Russia, come era nel sogno di Ernesto Balducci. Questo non ha proprio nulla di inverosimile: sarebbe anzi nel pieno interesse dell’Europa. Ma, purtroppo, è proprio quello che gli Stati Uniti temono, perché, nella logica di contrapposizione e di dominio che malauguratamente hanno scelto di adottare, questo creerebbe un blocco di enorme potenza che potrebbe minacciare la loro supremazia. Ma è proprio questa logica il problema. Basta leggere i documenti ufficiali americani raccolti a suo tempo da Allegretti, Dinucci e Gallo nel prezioso volume La strategia dell’impero (Edizioni Cultura della Pace, Fiesole, 1992) per vedere che essa risale ai giorni immediatamente successivi alla presunta fine della guerra fredda. Senza quella logica di contrapposizione e di dominio, senza quella scelta malaugurata, né l’Europa né gli Stati Uniti avrebbero nulla da temere dalla Russia, e l’Ucraina potrebbe vivere in pace e concordia con tutti i suoi vicini d’oriente e d’occidente.
Ma finché quella logica prevale, l’Ucraina, la Russia e l’Europa saranno in pericolo e sarà in pericolo la pace nel mondo.
Con questo articolo Alberto Cacopardo inizia una sua stabile collaborazione con Pressenza come editorialista, cosa di cui la redazione lo ringrazia con affetto.