Accade che lo sguardo disumanizzato del capitale finanziario internazionale non fa distinzione tra il dolore o la felicità della gente reale perché si muove in un universo parallelo fatto di astrazioni matematiche e statistiche. Di più, questo tipo di capitale è, esso stesso, un’astrazione dato che consiste in una forma di ricchezza che aumenta attraverso attività puramente speculative senza vincoli permanenti con un tipo di processo produttivo più elaborato. Un antipoema del poeta cileno recentemente insignito del premio Cervantes Nicanor Parra, illustra molto bene la questione: “Abbiamo due pani. Tu ne mangi due. Io nessuno. Consumo medio: un pane a persona.”
Il capitalismo classico si basa sulla produzione di beni e servizi pertanto sul lavoro qualificato. Se non esiste sfruttamento, cosa molto più difficile quando si tratta di lavoratori con un alto livello di specializzazione, e che contano con la tutela giuridica propria delle società più avanzate, questa forma di generazione di ricchezza è essenzialmente mediamente distributiva. In realtà, è l’unica forma di distribuzione che può giustificare il capitalismo anche quando questo “ideale” si trova condizionato da questioni previe che lo svuotano, sostanzialmente, delle sue virtù. Il diritto a ereditare e l’appartenenza a gruppi socioeconomici diversi in quanto a possibilità imprenditoriali rendono quasi impossibile garantire una genuina uguaglianza di opportunità, fatto che tende a invalidare il paradigma. Sebbene questo aspetto fondamentale venga sapientemente ignorato nel dibattito pubblico, in quanto apre un fronte difficile da sostenere da coloro che difendono l’attuale sistema, possiamo convenire sul fatto che il capitalismo produttivo permette alle società di raggiungere un livello almeno accettabile di giustizia sociale.
Il capitalismo finanziario al contrario, e con esso il modello che impone, si basa sulla rendita, su risorse che non gli appartengono e senza pagare quasi niente ai legittimi proprietari, ottenendo una rendita appunto. Ciò accade ad esempio con le risorse naturali dei paesi dell’America Latina. Trattandosi di processi estrattivi di bassa complessità, gli impieghi qualificati che generano sono esigui e non implicano nessun tipo di trasferimento tecnologico che vada oltre i benefici pratici e di largo consumo per la società che li alberga. In più, il flusso di valuta che entra ed esce da questi paesi senza nessun controllo genera bolle inflazionarie (la cosiddetta malattia olandese) che danneggiano gravemente altri settori delle esportazioni i cui processi produttivi si sostentano invece grazie al lavoro umano qualificato, come accade ad esempio in Cile nel settore agroindustriale.
Ad essere esatti, al capitale speculativo non interessa assolutamente la realtà umana legata ai processi produttivi, né le persone che utilizza solo come mezzo per accumulare più capitale che possa essere trasferito poi al circuito finanziario e reinvestito rapidamente in uno degli infiniti tipi di strumenti speculativi; un processo perverso attraverso il quale può continuare ad accumularsi. Il fattore umano introduce variabili di alta complessità perché diverso, impegnativo e imprescindibile, di modo che è necessario generare uno status quo che possa annullarlo e mantenerlo sotto controllo: la globalizzazione. Attraverso essa le grandi banche hanno imposto al mondo una completa deregolamentazione in tutti gli ambiti dell’attività economica permettendo la libera circolazione del grande capitale, l’eliminazione dei controlli ambientali, la flessibilità del lavoro, la delocalizzazione dell’industria a luoghi dove la mano d’opera è meno cara, quasi schiavizzata, e una libertà assoluta di fissare tassi di interesse praticamente da usura. Si tratta di un’autentica tirannia, come la qualifica uno dei documenti che fondano l’Umanesimo Universalista.
Ciò che ha reso possibile questa schiavitù universale del credito, che sottomette paesi, istituzioni e persone, è sorprendente e al tempo stesso facile da spiegare dato che ha una sola radice: l’accumulo di capitale in poche mani. La cosa più insolita di questo fenomeno è che non si tratta di un accumulo di proprietà ma del monopolio della sua amministrazione, giacché le risorse con le quali opera il circuito finanziario appartengono a milioni di risparmiatori che hanno paradossalmente delegato la gestione del loro denaro, ottenuto dal loro lavoro, nelle mani degli speculatori. Durante la crisi finanziaria del 1929, i finanziatori si suicidavano gettandosi dalle finestre dei loro uffici di Wall Street; al contrario, nella crisi del 2008 non si è saputo del suicidio di nessun operatore finanziario, per la semplice ragione che nessuno di essi ha subito le perdite di questa crisi; sono stati i risparmiatori a rimetterci mentre chi ha causato questa debacle se ne è andato ricevendo anche indennizzi milionari.
Il recente recupero delle risorse energetiche argentine, attraverso la nazionalizzazione della YPF, effettuato dall’attuale Presidente Cristina Kirchner, può indubbiamente rappresentare una strada da percorrere con il fine di liberarsi da quelle pesanti catene internazionali, specialmente se si considera che gli investimenti di Repsol, così come di molte altre aziende spagnole che operano in America Latina, corrispondono a una vera fuga di capitali conseguente ad una negligente politica fiscale nei paesi di origine. Per questo risulta inspiegabile la reazione stemperata del governo spagnolo a difesa delle transnazionali, in circostanze in cui la Spagna stessa subisce una grave crisi di liquidità che sta danneggiando principalmente i cittadini, obbligati a limitare drasticamente i benefici del cosiddetto stato del benessere. Ma questa è solamente una delle tante distorsioni del disordine globale in cui ci troviamo provocato dalla totale mancanza di controllo dell’attività finanziaria.
A questo punto tuttavia risulta difficile poter confidare ciecamente nello Stato, considerando che si tratta di un’altra struttura principalmente concentratrice e monopolizzante. Potrebbe accadere che qualche governo di turno, in seguito a pressioni elettorali, volesse convertire i suoi cittadini in diretti beneficiari della rendita ottenuta dalla commercializzazione di tali risorse naturali, come pare stia accadendo in Venezuela con il petrolio. Nonostante appaia legittimo che il frutto di quel guadagno favorisca la gente e non una multinazionale, un progresso duraturo può sostenersi solo se si articolano progetti di industrializzazione e di creazione di infrastrutture con uno sguardo al lungo termine, scelte che risultano difficili o impopolari quando l’unico scopo di quei governanti è quello di vincere le prossime elezioni.
E’ a questo punto che anche il fattore umano acquisisce importanza. Se i popoli si lasciano sedurre dai benefici immediati, apriranno la porta al clientelismo e alla più spicciola demagogia da parte della classe politica come è accaduto già tante volte dall’epoca dell’ateniese Alcíbiades fino ai nostri giorni. In questo modo, ipotecheranno la possibilità di un progresso reale e stabile, di un progresso di tutti e per tutti, che includa le generazioni future.
Se invece questi popoli apprenderanno a coltivare la lucidità, l’autodisciplina e riesciranno ad ampliare la traiettoria del loro sguardo, solo allora sapranno apprezzare che cosa significa diventare protagonisti di un reale progetto collettivo.
In questa crociata, l’Umanesimo Universalista ha molto da dire perché i suoi principi non sono mai stati subordinati alle situazioni contingenti né al pragmatismo immediato. Le sue proposte rivendicano il ruolo della politica come mezzo più alto nel decidere il destino delle società; ed è dalla fedeltà a questo nobile proposito che gli umanisti traggono forza per non arrendersi di fronte alle tentazioni della facile popolarità. Se manterranno questa linea di condotta, sanando anche le deficienze nella comunicazione nei confronti dei grandi gruppi, riusciranno presto ad ottenere ampio ascolto.
Tradotto da Eleonora Albini