Cisgiordania. Qalandia, uno dei check point più tristemente famosi nei Territori palestinesi occupati dall’esercito israeliano. Una donna palestinese viene uccisa gratuitamente da alcuni militari israeliani. Il video girato clandestinamente con un cellulare ha fatto il giro del mondo grazie ai social. Succedeva ieri, 18 settembre, di lei si sa solo che era sulla cinquantina. Un’altra donna uccisa senza motivo da soldati criminali di uno Stato la cui natura criminale si afferma in modo sempre più chiaro pur se coperta dai media e dalle complicità internazionali.
Questa donna non è la seconda o la terza, e neanche la decima. È una delle tantissime donne uccise da soldati che non avendo freni si comportano ormai con assassini seriali. Non hanno freni perché non hanno sanzioni e, del resto, se uno degli sfidanti dell’ultima tornata elettorale, il generale Gantz, si vanta di aver distrutto con le sue bombe molte parti della Striscia di Gaza rispedendole all’età della pietra, e se un altro sfidante, Bennett, si vanta di aver ucciso un’infinità di arabi senza alcun problema, e se Netanyahu, come massimo fastidio avuto per i suoi eccidi (termine non casuale né esagerato) ha avuto solo qualche rimprovero, è naturale che questi soldatelli imbottiti d’odio e di armi uccidano uomini, donne e anche bambini senza porsi né problemi morali né problemi legali.
Dal video appare chiaro che la donna, essendo ad alcuni metri di distanza dai soldati, non rappresentava alcun pericolo immediato. Pare avesse con sé un coltello da cucina. E’ possibile. Del resto la risposta alle mortificazioni, ai soprusi e alle violenze di 71 anni di occupazione si esprime anche a livello di esasperazione individuale. Ma cosa farebbe il militare di uno Stato democratico (che, tuttavia, trattandosi in questo caso di Stato illegalmente occupante, già vede stargli stretto l’abito democratico) davanti al sospetto di reato? Arresterebbe il sospetto. Se fosse costretto a colpirlo per legittima difesa, lo colpirebbe e poi, resolo inoffensivo, lo farebbe soccorrere per poi processarlo, MA NON LO GIUSTIZIEREBBE SENZA PROCESSO lasciandolo morire dissanguato impedendo i soccorsi fino al momento in cui non serviranno più a salvargli la vita.
Questa è la differenza tra l’esercito di uno Stato democratico e gli squadroni della morte in divisa, come potevano essere quelli dell’argentina di Videla o del Cile di Pinochet e come sono quelli dell’ Israele di Netanyahu e dei suoi predecessori. Sappiamo che dirlo ci sottopone al ricatto di essere tacciati di antisemitismo, ma sappiamo di non esserlo e rigettiamo l’accusa.
Quella donna senza nome per i nostri media, che potremmo chiamare convenzionalmente Abeer per restituirle un momento di consistenza umana finché non sapremo il suo vero nome, forse aveva 8 figli di cui due o tre già uccisi da Israele, come avviene almeno nel 70 per cento delle famiglie palestinesi. Forse era uscita di casa con la disperazione nel cuore e voleva vendicare uno dei suoi figli assassinati. Non lo sappiamo, non si è acceso il richiamo empatico con la vittima riconoscendole dei tratti di umanità. No, di lei sappiamo solo che era sulla cinquantina e che quando è stata finalmente inviata all’ospedale Hassadah ne hanno dichiarato la morte “per le ferite riportate”.
I soldati assassini che l’hanno “giustiziata” non pagheranno né avranno rimorso. Loro sono capaci anche di giocarci sul potere che gli dà quel mitra che possono usare liberamente contro i palestinesi. Loro si percepiscono come esseri superiori che hanno il diritto-dovere di difendere la loro superiorità.
Detto questo voglio raccontare una piccola storia vera e personale ai pochi lettori interessati a conoscere la realtà autentica che si vive in Palestina “col piede dell’occupante sopra il cuore”, per parafrasare un verso poetico di Quasimodo che calza a pennello.
Alcuni mesi fa ero in Cisgiordania per il mio lavoro e soggiornavo a Betlemme, ma quel pomeriggio ero andata a Gerusalemme per un’iniziativa culturale. Gerusalemme e Betlemme distano una decina di chilometri e si raggiungono con un bus pubblico che però, essendo Betlemme zona A e quindi sotto amministrazione palestinese, non ha diritto al trasporto pubblico dopo le 18,30/19 di sera! Una manna per i tassisti, che per quella manciata di chilometri mi chiesero l’equivalente di 60 euro! Così decisi di passare la notte, per 15 euro, in un ostello fuori Bab Al Amoud, la Porta di Damasco, quella sempre “allietata” da militari occupanti armati fino ai denti.
Decisi di fare un giro per la Gerusalemme storica in quell’ora che precede la notte e che vede l’immenso suq spegnere le luci e chiudere i banchi. E’ un’ora bella, le poche persone che ancora stanno riponendo le merci ti salutano e, dio-solo-sa-come, sembra che tutti sappiano che sei italiana e molti ti dicono “ciao Italia” o qualcosa di simile. A quell’ora c’è calma, non c’è più quasi nessuno e ogni saluto è un sorriso. Stavo risalendo dalla via dolorosa verso l’uscita quando una pattuglia di sette militari, tre davanti e quattro dietro, scendeva sulla stessa strada. Il soldato posizionato in prima fila sulla sinistra, a meno di due metri da me si ferma, batte il piede a terra e tutti si fermano. Alza il mitra, mi fissa, piega un ginocchio, sembra prendere la mira e impugna l’arma come se volesse spararmi. Si vedeva bene che ero una turista. Ero sola, l’ultimo palestinese che avevo salutato era almeno a cinquanta metri e forse ormai era andato via anche lui.
Che voleva fare il soldatello? Spaventarmi? Lo escludo. Spararmi? Lo escludo doppiamente. Giocare col suo strumento mostrando tutta la sua virile potenza di fronte a una donna che passeggia da sola e che potrebbe essere sua madre? Non lo so. So soltanto che per fortuna non ero palestinese, non avevo l’hijiab né la thobe e non ho avuto reazioni che, legittimamente, avrei avuto se fossi stata palestinese.
Quando si sta in situazioni impreviste il nostro cervello galoppa, anzi vola. Una decisione va presa in una frazione di secondo. Di fronte a me c’è una pattuglia di soldati che può trasformarsi in branco se faccio la mossa sbagliata. Tanto loro non pagherebbero che con qualche fastidio visto che sono straniera. Se fossi palestinese non pagherebbero affatto. Come dice Gideon Levi (giornalista israeliano) il sangue palestinese è una merce a costo zero. Ma sono italiana, credo di non correre alcun rischio. Ho solo sette imbecilli di fronte a me tronfi nelle loro armature che li fanno sentire potenti, e poi in realtà l’imbecille dichiarato è soltanto uno. La mia mente lavora velocissima e una cosa mi è chiara: non sono palestinese e non mi sparerà. L’idiota vuole solo giocare anche se sta violando altre leggi, sta commettendo un sopruso. Lo fisso con un sorrisetto, alzo le braccia aprendole, come ad offrirmi al suo mitra e dico con fastidio e un po’ di ironia “I am here… if you want…please!” A quel punto l’idiota muove il mitra come se stesse sparando e, con la voce, fa tattattatatà come farebbe un ragazzino normale di 7-8 anni o un imbecille di 22-23.
Cosa sarebbe successo se io fossi stata palestinese, se mi fossi spaventata sapendo che tante persone sono state ammazzate così? Forse avrei fatto la fine della signora che abbiamo deciso di chiamare Abeer e di tante altre compresa la 24enne che sempre a Qalandia hanno crivellato di colpi solo perché non capiva quel che le gridavano in ebraico e chiedeva di dirglielo in inglese. Forse sarei scappata e mi avrebbero sparato. Forse avrei cominciato a urlare e mi avrebbero sparato. E poi? Poi mi avrebbero buttato accanto un coltello. E poi il mondo si sarebbe dimenticato che, coltello o meno, non si somministra la pena di morte senza processo se non si vuole essere paragonati ai Videla o ai Pinochet. E poi Israele avrebbe seguitato, come di fatto seguita, ad essere chiamato Stato democratico … vittima di terroristi palestinesi che è costretto a uccidere!
I media hanno una grande responsabilità in tutto questo. Purtroppo la maggior parte di loro è complice di queste condanne a morte e forse non si vergogna di esserlo solo perché la maggior parte di loro non ha mai conosciuto la Palestina autentica, quella “col piede dell’oppressore sopra al cuore”.