Dania lavora in Publiacqua dal 2002, anno di nascita dell’azienda. Prima lavorava in Consiag, il Consorzio Intercomunale Acqua e Gas dei comuni limitrofi di Firenze: non c’è stata interruzione tra un rapporto di lavoro e l’altro, quindi è dal 1994 che Dania risulta assunta continuativamente.
I suoi 25 anni di anzianità le permettono di potersi appellare all’articolo 18 dello statuto 300, che prevede la reintegra sul posto di lavoro, nel caso di licenziamento ingiustificato o discriminatorio, cancellato nel 2015 con la riforma renziana sul lavoro, conclusasi con il Jobs Act. Il particolare non è di poco conto, visto che Dania è stata licenziata dall’azienda nel maggio di quest’anno e sta seguendo l’iter legale per la reintegra.
Dania è una lavoratrice modello: mai una contestazione, stimata da tutti i colleghi e superiori, ma è anche un’attivista sindacale di USB, sindacato che da sempre da del filo da torcere a Publiacqua da parecchi anni, incalzandola sulle mille contraddizioni che l’azienda dell’acqua mostra di non riuscire (voler) sanare.
Dania è stata licenziata per un evento accaduto il 12 aprile. Ma i fatti sono complicati e per capirli occorre fare un passo indietro.
Publiacqua ha degli uffici a Firenze in cui lavorano circa sessanta persone che hanno le finestre sigillate e il circolo d’aria forzato. Questo accade perché i locali si trovano sopra le vasche di potabilizzazione dell’acqua e nell’aria non si sa cosa si respiri, ma si sa che continuamente lavoratrici e lavoratori hanno accusato malori. Negli anni sono state innumerevoli le segnalazioni dell’USB, ma anche dei rappresentanti della sicurezza, che si sono concluse con la scelta dell’azienda di sigillare le finestre e pagare un costosissimo impianto di aerazione, acquistato con soldi ad investimento, che gravano, in ultima battuta, sulle bollette dell’acqua.
Purtroppo il costoso impianto e la manutenzione affidata a una ditta che ha avuto, negli ultimi anni, sempre affidamenti diretti, cioè senza gara, non hanno risolto il problema, ma anzi lo hanno peggiorato, anche se solo due sono stati i casi di infortunio riconosciuto, perché i lavoratori hanno preferito mettersi in malattia e non fare la procedura per vedersi riconosciuto l’infortunio.
Tutto ciò fino al 12 aprile di quest’anno quando in sei hanno accusato malesseri tali che il medico aziendale, fortuitamente presente sul posto, ha chiamato l’ambulanza. A tutti e sei i ricoverati è stato riconosciuto l’infortunio sul lavoro e quello che negli anni l’azienda aveva derubricato a ‘isterismo collettivo’ è stato preso sul serio, tanto che gli uffici sono stati sgomberati e i lavoratori spostati in altre sedi. Ci sono voluti sei intossicati, la più grave con 40 giorni di prognosi.
Dania, eletta RSU proprio in quei giorni, condivide un post su Facebook su quanto accaduto, e nei commenti scrive che ‘è stato dato il flit ai lavoratori’. Per questi commenti, l’azienda considera che manca il rapporto di fiducia tale da continuare il rapporto di lavoro e la licenzia.
È indicativo come un’azienda possa licenziare per mancanza di rapporto fiduciario, mentre dopo anni di segnalazioni chiude frettolosamente uffici in cui ha esposto a rischi gravi le lavoratrici e i lavoratori. Se esiste, il rapporto fiduciario dovrebbe essere reciproco: ma quale rapporto fiduciario ha costruito l’azienda nei riguardi dei suoi lavoratori? A limite l’unico rapporto che ha costituito è stato di paura: lavoratrici e lavoratori spaventati a punto tale di mettere da parte la propria salute, di evitare di farsi riconoscere l’infortunio. Forse l’azienda non avrà dato il flit ai lavoratori, ma se dopo anni di segnalazioni solo sei lavoratori intossicati la convincono a chiudere dei locali insalubri, allora c’è un problema grave di attenzione alla sicurezza. Sono i lavoratori legittimati a non fidarsi dell’azienda, non il contrario.
Dania ha l’articolo 18: potrà appellarsi al tribunale per vedersi reintegrata. Se fosse stata assunta dopo il 2015, il giudice le avrebbe potuto dare ragione, ma non le avrebbe potuto restituire il posto di lavoro.
Dania non è la sola ad aver subito questo trattamento: Angela, una delegata USB dell’Unicoop di Montevarchi è stata licenziata perché accusata di non aver pagato una spesa, pochi giorni prima che scoppiasse il caso di Dania.
A Prato sono stati colpiti i sindacalisti del Si Cobas con Daspo, rei di aver organizzato i lavoratori di Panificio Toscano, maggior fornitore della Coop e non in regola con i contratti di lavoro.
La stretta sulle lavoratrici e i lavoratori che tentano, ormai tra mille limitazioni, di non abbassare la testa di fronte alle ingiustizie, è diventata sempre più dura: il terreno perso negli ultimi anni di riformismo e contrattazione al ribasso sindacale si fa sentire e si abbatte la mannaia sui diritti dei lavoratori.
Perché anche quei minimi diritti che sono rimasti sembrano troppi, visto che l’arroganza dei padroni non ha freni, se non quelli che vengono imposti con le lotte sindacali. O si riprende un sano conflitto e si spiega ai lavoratori che i diritti vanno difesi oppure il mondo del lavoro è destinato a peggiorare, e siccome siamo già alla barbarie, c’è da chiedersi dove si sarà disposti ad arrivare.
Negli ultimi mesi in Toscana si sono registrati troppi eventi preoccupanti, per questo motivo i sindacati di base hanno deciso di lanciare un’assemblea cittadina per costruire un percorso unitario contro la repressione e la macelleria sociale che ha portato al taglio netto dei diritti dei lavoratori, ma soprattutto per dare voce a Dania e a quanti come lei hanno pagato con il posto di lavoro la scelta di non abbassare la testa di fronte al potere.
L’appuntamento è stato lanciato per il 26 settembre alle h. 17.30 al Circolo delle Porte Nuove.
La repressione avanza, con i Decreti Sicurezza, che colpiscono tutti quelli che credono nel diritto alla mobilitazione di fronte alle ingiustizie, con l’arroganza del potere che si sente impunito: la risposta deve essere quanto più possibile decisa e unitaria.