Occorre tenere alta l’attenzione in vista del ricorso in Cassazione già annunciato dalla difesa di Jorge Néstor Troccoli, uno dei condannati all’ergastolo. L’8 luglio scorso la Prima Corte d’Assise d’Appello di Roma ha condannato all’ergastolo 24 imputati riconosciuti colpevoli di aver causato la morte di 23 cittadini italiani nell’ambito del piano di collaborazione tra i regimi militari latinoamericani degli anni ‘70
L’8 luglio scorso la Prima Corte d’Assise d’Appello di Roma ha condannato all’ergastolo 24 imputati responsabili di aver provocato la morte di 23 cittadini italiani nell’ambito del Plan Condor, tutti ex militari delle dittature di Cile, Bolivia, Uruguay e Perù. La sentenza di condanna era stata accolta con grande soddisfazione dai familiari dei desaparecidos, tuttavia la difesa di uno dei condannati, Jorge Néstor Troccoli, ha già fatto sapere che presenterà ricorso in Cassazione.
Se Troccoli riuscisse a farla franca, come ha fatto per gran parte della sua vita, sarebbe un ulteriore affronto per i familiari delle vittime del regime militare uruguayano. Troccoli è stato condannato all’ergastolo insieme ai suoi connazionali José Gavazzo Pereira, Juan Carlos Blanco, José Ricardo Arab Fernández, Juan Carlos Lacerbeau, Pedro Antonio Mato Narbondo, Luis Alfredo Maurente, Ricardo José Medina Blanco, Ernesto Avelino Ramas Pereira, José Sande Lima, Jorge Alberto Silveira, Ernesto Soca e Gilberto Vázquez Bissio.
La storia di Troccoli è esemplificativa del livello di impunità di allora, il Plan Condor negli anni ’70 e ’80 permise ai regimi militari latinoamericani di collaborare per catturare, scambiarsi e uccidere i prigionieri politici, ma anche di oggi, se il condannato, per bocca della sua difesa, ha sostenuto di aver commesso i suoi crimini in qualità di militare al servizio del suo paese, tanto da scriverlo anche in un suo libro molto discusso, L’ira del Leviatano.
L’ex ufficiale del Fusna, i servizi segreti della Marina militare uruguayana, nel libro pubblicato nel 1998 tentava di giustificare i suoi crimini invocando l’obediencia debida: in pratica, intendeva dire che si era limitato ad eseguire gli ordini provenienti dall’alto. Sulla figura di Troccoli, nel dicembre 2007, Gennaro Carotenuto scrisse un articolo sul quotidiano il manifesto, dal titolo Un torturatore in Italia – vita e opere di Jorge Troccoli, raccontando che per passare all’anonimato, l’ex militare si era iscritto alla facoltà di Scienze sociali di Montevideo. Furono gli studenti ad accorgersene e a cacciarlo. Sempre sul manifesto, il 24 dicembre 2014, Claudio Tognonato spiegò che “Troccoli è stato tra i primi a riconoscere l’uso della tortura negli interrogatori, ha ammesso di averla praticata sui prigionieri, ma citiene a precisare di non aver mai ucciso un detenuto”. Anche in quella circostanza, Troccoli aveva provato ad autoassolversi.
Nel 1997 Troccoli si presentò a Marina di Camerota (Salerno)come un emigrante di ritorno qualsiasi,ma in realtà in fuga dal suo paese per evitare il processo, al fine di ritirare una medaglia dedicata al suo bisnonno che nel 1880 era riuscito nell’impresa di attraversare l’Atlantico. La giustizia italiana ne ordinò l’arresto il 23 dicembre 2007, ma la Corte d’Appello di Salerno fu costretta a scarcerarlo il 24 aprile 2008: dall’Uruguay non era giunta, entro il termine previsto di 90 giorni, la richiesta di estradizione (la scadenza era stata fissata per il 23 marzo 2008). A seguito di quell’episodio, l’ambasciatore uruguayano in Italia, Carlos Abin, fu rimosso dal suo incarico. Quando inviò la documentazione necessaria, il 31 marzo 2008, i termini erano già scaduti ed era ormai troppo tardi.
In occasione delle udienze del processo di primo grado, due sue vittime, Cristina Fynn e Rosa Barreix, riconobbero l’ex militare del Fusna come il loro torturatore. Troccoli rivestì inoltre un ruolo di primo piano anche per catturare gli oppositori politici che cercavano di sfuggire dal regime militare uruguayano cercando salvezza in Argentina. Tra loro vi era Bernardo Arnone, militante del Partido por la Victoria del Pueblo, operaio metallurgico coinvolto nelle lotte sindacali. Decise di fuggire in Argentina insieme alla moglie, Cristina Mihura, dopo essere già stato una volta in carcere a seguito di una serie di rivolte nella fabbrica dove lavorava.
In Argentina, quando se lo llevaron, il 1° ottobre 1976, fu visto per l’ultima volta al centro clandestino di detenzione Automotores Orletti di Buenos Aires. Da allora è desaparecido e non si sa se fu deportato al suo paese da Buenos Aires per essere ucciso o se fu eliminato nella capitale argentina. Fu nel 1999, su iniziativa di Maria Luz Ibarburu, madre del figlio desaparecido Juan Pablo Recagno, che la Corte Penale di Roma ricevette una domanda formale perché si investigasse sulla sparizione di cinque vittime uruguayane edi una argentina, tutte di origine italiana. Il cosiddetto Juicio Condor nacque da lì. La donna fu sostenuta da Cristina Mihura, Marta Casal Dal Rey, moglie di Gerardo Gatti, Maria Bellizzi, madre di Andrés Bellizzi, Claudia Allegrini, moglie di Lorenzo Viñas e Aurora Meloni, moglie di Daniel Banfi. Una volta che la denuncia fu presa in carico dalla Corte d’Appello di Roma il numero delle vittime del Plan Condor di origine italiana aumentò, includendo 33 uruguayani, 5 argentini, e 4 cileni.
La sentenza dell’8 luglio ribalta quella di primo grado del 17 gennaio 2017, caratterizzata dalla condanna di presidenti e ministri, ma non da quella di ex militari ed ex agenti dell’intelligence, come era lecito invece attendersi. Tra loro vi era Troccoli, per il quale paradossalmente, pur riconoscendogli un ruolo di primo piano nell’eliminazione dei detenuti, non erano presenti prove specifiche che ne certificassero il suo ruolo attivo nell’uccisione dei prigionieri. Adesso pare che sia stato provato il ruolo di collaborazione tra Fusna ed Esma finalizzato a uccidere i detenuti. Questo ha inchiodato gli ex militari condannati l’8 luglio scorso dalla Prima Corte d’Assise d’Appello di Roma.
Se la Cassazione si dimostrasse sensibile alle tesi sostenute dalla difesa di Troccoli non solo ucciderebbe una volta di più i desaparecidos, ma provocherebbe un ulteriore dolore ai loro familiari, che da oltre 40 anni si battono per avere verità e giustizia.
David Lifodi