La storia del Riace in Festival 2019 è stata proprio una bella storia. Chi l‘avrebbe detto che, dopo tutto quello che è successo da quel 2 ottobre 2018, quando Mimmo Lucano fu messo agli arresti domiciliari, anche quest’anno il Festival avrebbe visto tanta partecipazione?
La Fondazione “É stato il vento” aveva corso un bel rischio, nel decidere di confermare l’appuntamento e chiedere alla nuova giunta comunale l’uso degli spazi pubblici, Anfiteatro e Mediateca; se il Festival fosse andato semi-deserto, sarebbe stato un colpo difficile da riassorbire. E invece il popolo della solidarietà, che ha visto nell’attacco a Riace e a Mimmo Lucano un momento cruciale dell’attacco politico in corso contro la Costituzione e le nostre libertà, ha apprezzato la scommessa fatta dalla Fondazione ed è accorso da tutte le parti d’Italia, e non solo; insomma, ha voluto esserci. Così il paese si è ripopolato, le case del turismo solidale si sono riempite di nuovo, tutti gli eventi sono stati molto partecipati, la piazzetta grondava di persone fino a tardi la sera. “Da qui è passato il mondo”, ti raccontano oggi i riacesi con un po’ di nostalgia; ecco, grazie al Festival, il mondo era di nuovo lì, e a molti di loro brillavano di nuovo gli occhi.
Ovviamente, il clima era a dir poco particolare. Innanzitutto, perché Mimmo Lucano è scandalosamente ancora in esilio, da ormai 10 mesi. Questo è stato il primo Riace in Festival senza Lucano, per quanto sembri difficile anche solo pensarlo. Inevitabile dunque che proprio la sua assenza forzata fosse molto presente nel Festival, ne colorasse umori ed emozioni. E così il festival va da lui, a Caulonia, per un dibattito su “Fare comunità”: perché ci dica come nei venti anni di lavoro a Riace è riuscito a costruire una comunità globale, in cui tutti, autoctoni e nuovi arrivati, riconoscevano problemi comuni ed erano chiamati a lavorare per soluzioni comuni. Sì, perché in fondo quell’aver fatto dei rifugiati dei membri della comunità alla pari con tutti gli altri, e non soltanto degli ospiti di progetti d’integrazione, è proprio quello che nel processo di Locri viene rimproverato a Lucano.
Ma il Festival è andato da Lucano anche attraverso gli artisti che ne hanno animato gli eventi: ognuno di loro, Ascanio Celestini, Vauro, Ivano Marescotti, Dario Brunori, prima di esibirsi in piazza, è andato ad incontrarlo in quel bar d’angolo di Caulonia che ormai è diventato un po’ il suo ufficio; e una volta sul palco, hanno raccontato l’emozione di quegli incontri quasi furtivi, in cui fra una granita e un caffè, in un rimbombo acustico che scoraggerebbe i più, hanno ragionato a lungo con lui di valori alti, la solidarietà, l’umanità, la Costituzione, e lo hanno abbracciato. Perché questo Festival è stato un lungo e caldo abbraccio solidale a Lucano, a chi ha saputo costruire tanto in nome dell’umanità e si trova da mesi attaccato, messo ai margini, portato a processo, costretto a vivere lontano dalla sua comunità.
E l’esilio di Lucano, da sfondo emotivo, si fa tema, diventa protagonista con la proiezione in Mediateca di “Esilio. La passione secondo Lucano”, di Maurizio Fantoni Minnella. Ad assistervi in sala, in mezzo ad un folto pubblico, ci sono molti dei protagonisti delle interviste che scorrono sullo schermo, dal medico Isidoro Napoli al professor Roberto Lucano, padre di Mimmo, che con i suoi splendidi 93 anni sorride dolcemente nel rivedersi sullo schermo. Il tono dolente del documentario, e dello stesso Lucano nella lunga intervista, trasmettono la sofferenza che questa misura obsoleta e sproporzionata provoca, danno voce al legame forte fra l’ex-sindaco e la sua comunità, e fanno capire ancora meglio perché Lucano ha rifiutato ostinatamente ogni candidatura pur di restare vicino a Riace e al processo, da cui si attende una piena riabilitazione. “L’uomo è questo, dice il dottor Napoli, lui vuole solo tornare a Riace”.
Ma l’esilio, si sa, è condizione simmetrica, nella misura in cui spezza una relazione: se Lucano lo vive con grande sofferenza personale, il borgo trattiene il fiato, si sente sospeso, ne attende il ritorno. E allora parlando con le persone del paese, scopri che non solo gli artisti sono andati a trovarlo, ma quello lì è passato a salutarlo ieri, quell’altro stamani si è fermato da lui mentre andava a comprare i giornali, e tutti portano i suoi saluti a qualcuno. La comunicazione, il flusso emotivo continuano, il legame non è spezzato. E forse è proprio questo che rende l’esilio ancora più doloroso.
Anche l’altro motivo per cui il clima di questo Festival 2019 è stato particolare è legato ad un’assenza, ancorché di segno completamente diverso. Non un’assenza forzata, sofferta, drammatica, che si abbatte su legami concreti e forti, ma un’assenza voluta dalla nuova giunta comunale, guidata da Antonio Trifoli, uscita vincitrice dalle elezioni del 26 maggio: per la prima volta, al Festival non c’era il Comune di Riace. Anzi, il Comune aveva negato il patrocinio gratuito, e si era contraddistinto per la pubblicazione, nei giorni precedenti, di strane ordinanze criptiche in cui si vietava “qualsiasi manifestazione a scopo propagandistico”, si minacciava l’immediata denuncia alla Digos, si vietava la vendita pubblica di alcolici, ecc. essendo poco chiaro cosa sarebbe ricaduto nella categoria “propaganda”, qualche consigliere comunale si era speso a precisare attraverso Facebook che non sarebbe stato permesso di esporre su tee-shirts o striscioni il viso di Mimmo Lucano, o di lanciare slogan inneggianti all’ex-sindaco. Lo stesso Trifoli precisava che si trattava solo della volontà di rispettare il voto della maggioranza degli elettori, tralasciando ovviamente di dire che la lista vicina a Lucano aveva in realtà vinto di una cinquantina di voti nel borgo di Riace superiore, dove si svolgeva per l’appunto il Festival.
Comunque, si sono visti i Carabinieri, costretti ad assistere in divisa alle proiezioni in Mediateca, uomini della Digos in borghese e vari parenti dei membri della nuova giunta comunale che supervisionavano la folla in piazza, ma sembra che non ci siano state denunce alla Digos (fino a prova contraria). A conclusione del Festival il sindaco Trifoli ha invece pubblicato un post in cui ha assicurato che il prossimo anno il Riace in Festival sarà fatto dall’amministrazione comunale, con nuovi direttori artistici e nuove idee. Per un sindaco dichiarato ineleggibile, che aspetta il risultato del suo ricorso al TAR, si tratta indubbiamente di un bello slancio di ottimismo.
E poi ci sono state le presenze. I libri presentati, i video che ci hanno condotti in altri luoghi dell’esodo dei rifugiati, la rotta balcanica con “Inshallah Europa” di Massimo Veneziani, o i corti che hanno partecipato al concorso. E la musica, e soprattutto gli spettacoli serali: Ascanio Celestini con la sua formidabile “Ballata dei senza tetto”, accompagnato dalla fisarmonica di Gianluca Casadei che ne sottolineava benissimo il tono malinconico; Giuseppe Mazzotta con un monologo tratto dal suo “Muori cornuto”, la storia di Giuseppe Zangara che tentò di uccidere il presidente Roosevelt e uccise invece il sindaco di Chicago. E poi Vauro e Brunori Sas che hanno dialogato sul razzismo illegale con padre Zanotelli e Gianfranco Schiavone della Fondazione “É stato il vento”: il primo si è scatenato con il suo umorismo sui “segni”, lui che di-segna e dunque se ne intende; Brunori ha preso la chitarra, ha cantato le sue canzoni tristi, come dice lui, perché sente che siamo forti e non ci lasceremo scoraggiare, e ci ha dedicato la Canzone contro la paura. L’ultima sera, infine, Ivano Marescotti ci ha parlato delle sue delusioni politiche e del sogno di uguaglianza sociale e di solidarietà che continua ad abitarlo e lo ha condotto a Riace.
Non voglio fare una cronaca esaustiva degli eventi del Festival. Piuttosto, mi piacerebbe riuscire a restituire l’atmosfera di quei giorni: il bar Alessio preso d’assalto da code infinite di persone assetate e affamate, ma sempre pazienti; l’odore di salsiccia che inesorabilmente si spande su tutto e tutti nella piazza, e giù giù fino in fondo all’Anfiteatro e sul palco; quel bighellonare libero nel borgo e avviare cento conversazioni con i riacesi, con i rifugiati che ancora resistono lì e con gli altri ospiti accorsi per il Festival; e le mille storie che ti vengono raccontate, di chi è ancora lì e di chi se ne è dovuto andare ma ancora si collega via skype per non perdere il contatto con la comunità. Insomma, un fervore che contrasta con il paesaggio desolante lasciato da quel carrarmato che, come dice Vauro, si è abbattuto su Riace: i laboratori e le botteghe chiusi, il frantoio fermo, la fattoria didattica sequestrata, il silenzio dei vicoli, le tante case deserte. Perfino gli asini hanno voluto farsi sentire con poderosi ragli, dirci che sono ancora lì, pronti a ricominciare…
Perché il Festival ha dato voce proprio a questa voglia di ricominciare che ha contagiato tutti: la Fondazione e Mimmo Lucano ovviamente, ma anche tutti quelli che hanno partecipato al Festival e tutti quei riacesi che sono stati toccati dalla grazia di aver visto “passare di lì il mondo”. Sì, il Riace in Festival 2019 è stata proprio una bella storia.
Si ringrazia per le foto e la partecipazione al Festival di Riace: Roberta Ferruti
articolo di Giovanna Procacci