È il 7 giugno 2017. Mohammed, 40 anni, soldato dalla parte sbagliata, viene ucciso a bruciapelo davanti agli occhi atterriti della moglie. Poco dopo un biglietto la avverte: “uccideremo tuo figlio”. Lei è disperata, non sa come proteggerlo, non c’è posto dove andare.
Due mesi dopo è la volta del piccolo Firas, 13 anni appena. È il 18 agosto 2017 quando viene sgozzato. Si, proprio così: sgozzato. Poi, di nuovo, un altro biglietto: lei e le sue quattro figlie sono impure nella terra dei puri, devono andarsene entro 72 ore altrimenti saranno uccise o abusate. “We will kill you and your daughters” le dicono i militanti di Daesh. Devono scappare di notte ma sono donne, sole, senza protezione. Un inferno. L’inferno di Moria da subito si rivela una trappola e un’insidia continua da cui è difficile sfuggire. L’UNHCR le sposta nel continente, su su fino a Joannina in un campo chiuso, fino a isolarle in una stanza da cui non possono uscire. Non hanno alcuna protezione, non c’è padre o marito o fratello che le protegga e che onori la loro reputazione, anzi la sua, quella maschile. La loro colpa è essere donne, un marchio nel marchio d’essere profughe.
Chiedono asilo, chiedono aiuto ma nessuno le aiuta, cercano riparo e trovano morbosità. Sono vicine ai confini con l’Albania. Non hanno scelta. O rimangono vittime e prigioniere o diventano protagoniste del loro destino. Scappano, fuggono nell’unico modo possibile mettendosi in mano alla mafia poiché non c’è altra via. Arrivano in Montenegro. Gli uomini della mafia hanno un nome e un cognome, si chiamano però criminali. Le sequestrano, pretendono soldi che non hanno. Un amico irakeno, profugo ad Atene, le riscatta e le “salva”. Nel nero della notte vengono abbandonate in un bosco del Montenegro. La polizia le rintraccia e separa la figlie di 12 e 15 anni respingendole in Albania mentre la madre con la piccola di 8 anni e la più grande di 17 anni vengono portate in un campo profughi.
La farmacista di Bagdad non può tollerare tanto dolore.
Dopo tre giorni lascia in custodia la più piccola alla più grande e ripercorre la strada a ritroso verso l’Albania dove riesce a rintracciare le due figlie.
Rientra con loro in Montenegro ma questa volta la polizia imprigiona lei e le due ragazze nelle gabbie costruite per i migranti e solo dopo moltissime ore, forse 36, le respinge di nuovo in Albania.
Una madre è una madre. Non può arrendersi alla disperazione. Ci sono le altre due figlie rimaste al campo. Conosce un po’ i sentieri e dopo due giorni fra le montagne, in mezzo a mille pericoli, rientra in Montenegro. Altra cattura da parte della polizia, altra prigionia, finché qualcuno accerta che la piccola di 8 anni e la grande di 17 anni sono effettivamente sue figlie permettendo che si riuniscano. Passeranno altri mesi di stenti, di vita in un container dove il freddo fa venire i geloni e dove l’unico tempo da vivere è l’attesa del nulla.
La farmacista di Bagdad ancora una volta non si arrende; le sue figlie, almeno loro, devono avere un futuro. Tentano il passaggio del confine tra Montenegro e Bosnia, lo attraversano ma sono catturate. Ora siamo a Kazanci in Bosnia, nella gabbia umana dove sono imprigionate con altre tre famiglie curde senza acqua, senza cibo, senza gabinetto. Le grida della piccola Roqya e degli altri bimbi consumano l’attesa di quelle 36 ore eterne.
Alla fine del tunnel, nel cuore della notte, nel buio senza testimoni, la farmacista di Bagdad con le sue figlie vengono respinte verso il Montenegro. Il cuore accelera, la stanchezza si fa allucinazione, inebetimento, la poca luce notturna imperla le ciglia di questi cinque volti di donne sole. Unico rumore l’angoscia che urta sulle loro anime. S’instaura una scena spaventosamente nitida: gabbie umane, respingimenti, traumi psichici; un concentrato di dolore, crudeltà e violenza che si incidono nelle loro anime
Ma il vento non si può fermare. Arrivano alla fine a Bihac dove inizia un’altra fine. La più piccola delle sue bimbe ha 8 anni, la più grande 18. Sono bloccate senza un futuro.
Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, operatori indipendenti; dal viaggio in Bosnia del luglio 2019