Contrastare il caporalato, restituire dignità alle lavoratrici e ai lavoratori stranieri ed italiani, costruire una filiera agroalimentare naturale e biologica, promuovere una nuova economia etica. Il tutto partendo dal pomodoro, il cibo più pop del mondo. Nato nel 2015 nel sud Italia, il progetto Funky Tomato testimonia che è possibile costruire un modello di produzione sostenibile per chi lavora nei campi, per chi produce e per chi acquista e poi mangia.
Cosa c’è dietro la produzione di una semplice passata di pomodoro? Quando penso a questo prodotto mi vengono in mente i miei nonni e zii che quando ero piccolo accendevano un grande fuoco e – dopo aver raccolto e macinato i pomodori – li facevano bollire per ore in bottiglie di recupero. Poi, rifletto, e penso a campi di pomodori intensivi, irrorati di sostanze chimiche e cresciuti a forza in serre lontane. Poi rifletto ancora e vedo le persone che lavorano su questi campi. Dentro e fuori le serre. In Italia e all’estero. Italiani, immigrati, uomini e donne, piegati nel piantumare e raccogliere, sottopagati, spesso senza contratto né diritti riconosciuti. Non solo. Se penso alla salsa di pomodoro dei miei nonni mi viene in mente un sapore intenso, spesso variabile, sicuramente autentico. Se penso alle salse di pomodoro del supermercato penso ad un sapore predefinito, zuccherato, sempre uguale a se stesso.
E quindi? Perché vi sto raccontando le mie immaginazioni limitate su uno dei prodotti più utilizzati nelle cucine italiane e non? Per introdurre la storia di oggi, quella di Funky Tomato.
Già leggendo le prime righe della visione, sul loro sito, si capisce che l’approccio non è dei più tradizionali: “Funky Tomato individua nella partecipazione l’atto fondante di un cambiamento migliorativo delle condizioni economiche e sociali di individui e comunità nel loro insieme. Una visione che implica l’assunzione di responsabilità nella cura delle persone, dei territori, delle comunità coinvolte nella filiera agroalimentare”.
Che c’entra la partecipazione con il sugo per la pizza e la pasta? Più avanti nella pagina si legge: “Funky Tomato vuole tracciare un solco percorribile da tutti, un progetto d’impresa pop, nel senso artistico e culturale del termine, e attraverso il cibo più pop del mondo – il pomodoro – e diffondere il messaggio che una nuova economica etica, equa e partecipata è possibile. […] per questo Funky Tomato vede nella varietà meravigliosa del mondo naturale la stessa bellezza multiforme che si ritrova nella molteplicità umana. La comunità Funky Tomato è fondata sul rifiuto di ogni forma di discriminazione, perché nasce dalle relazioni tra le persone, dalla socialità innata dell’essere umano”.
Insomma, come si dice a Roma, “robba forte”. E la citazione romana non è un caso. Il fondatore di questa avventura, infatti, è proprio romano. Si chiama Paolo Russo, e – dopo gli studi – ha vissuto in molte zone del sud Italia, principalmente in Puglia. Ora ha la sua base in una meravigliosa cittadina nel nord della Calabria, Civita. Qui io e Paolo Cignini, in viaggio alla ricerca di nuove storie, lo incontriamo quasi per caso nei e dopo due giorni trascorsi insieme, lo intervistiamo.
Paolo, seduto nel suo piccolo orto di casa, ci racconta come Funky Tomato sia nato nel 2015. In quell’anno il fenomeno del caporalato diventa di importanza pubblica, quando un evento drammatico raggiunge le cronache dei nostri mass media: muore, infatti, una bracciante sul ‘campo’ – Paola Clemente – e Paolo viene coinvolto da una serie di ricercatori nel creare un modello che non rendesse necessario lo sfruttamento dei braccianti per mettere in piedi una produzione di pomodori sostenibile a livello economico ed ecologico. Sostenibile per chi lavora nei campi, per chi produce e per chi acquista e poi mangia.
“Non ci riteniamo una impresa, ma un progetto sperimentale che ha l’ambizione di essere quanto più trasversale possibile e quanto più includente possibile – ci spiega Paolo – Abbiamo cercato di coinvolgere tutti i soggetti coinvolti nel processo produttivo. Tra questi i lavoratori e i consumatori, che normalmente non sono considerati come parte della filiera.
Abbiamo deciso di ragionare sul processo dell’immigrazione come una cosa funk, una cosa che contamina la retorica della ruralità e utilizza la contaminazione per migliorare i propri processi. Noi riteniamo i braccianti, che sono in gran parte stranieri, delle risorse, un valore aggiunto, un’opportunità per proseguire con la nostra storia e la nostra visione agricola.
Abbiamo scelto il pomodoro come rappresentazione principale delle problematiche legate allo sfruttamento del lavoro, ma anche perché questo ‘frutto’ dimostra come la contaminazione rappresenti un valore aggiunto: il pomodoro è arrivato in Italia – come prodotto esclusivamente ornamentale – con la ‘scoperta’ dell’America. Era giallo principalmente; una volta diffusosi a Napoli ha ridotto i livelli di solanina ed è diventato rosso ed è stato usato come prodotto alimentare. La contaminazione, quindi, dà vita a una nuova cultura e nuove tradizioni”.
Per mettere a sistema questo processo e coinvolgere in modo veramente paritario i vari attori della filiera, è stato realizzato un contratto di rete: attraverso meccanismi mutualistici le diverse criticità possono così essere sostenute e remunerate. Questo strumento si differenzia nettamente dalla filiera agroalimentare convenzionale dove i rapporti sono ‘uno a uno’ e vengono quindi determinati dalla forza finanziaria dei singoli soggetti. Dentro Funky Tomato si genera così un processo osmotico: le realtà più forti sostengono quelle più deboli.
Come detto, i braccianti e i consumatori sono attori del contratto di rete al pari di produttori e distributori. I primi hanno costituito una loro assemblea, i secondi partecipano attraverso i gruppi di acquisto. Non solo. Sono stati inseriti nella filiera anche formatori agricoli, creativi, ricercatori, studiosi di governance. Grazie all’incontro tra le diverse componenti sono arrivate proposte e soluzioni per i diversi problemi.
Per combattere le logiche del caporalato, inoltre, si è cercato di contrastare la politica del cottimo secondo le quali un lavoratore vale l’altro, esattamente come se il loro lavoro fosse svolto da una macchina. Per questo Funky Tomato ha scelto di puntare su pomodori meno industriali possibili, puntando su varietà come il San Marzano, che richiedono una raccolta qualificata. In questo modo, il lavoro del bracciante diventa anche culturale ed è più difficilmente sostituibile.
I lavoratori sono retribuiti rispettando le regole del contratto provinciale agricolo che costringe il datore di lavoro a limitare il numero di ore del bracciante a 6-8 per 5 giorni a settimana, riconoscendo sussidi di disoccupazione, prevenzione dei rischi e così via. Cose teoricamente scontate, ma troppo spesso ignorate, non solo sulla pelle degli immigrati, ma anche su moltissime donne italiane che spesso lavorano in questo settore.
Le coltivazioni sono biologiche e naturali e sono situate principalmente al sud e in particolare in tre regioni, Puglia, Calabria e Campania. “In Campania – spiega Paolo Russo – produciamo nel più grande bene confiscato alla mafia, fondo rustico Amato Lamberti. Il bene è stato affidato alla cooperativa Resistenza Anticamorra. La disoccupazione è uno strumento del caporalato. Per questo lavoriamo a Scampia a Napoli. In Puglia, produciamo a Foggia con una OP, organizzazione di produttori, che lavora a 500 metri dalla più grande bidonville d’Europa. Volevamo incidere su questo territorio e confrontarci con chi ogni giorno vive questo fenomeno. In Calabria lavoriamo sul Pollino che è l’area a più alto rischio di spopolamento d’Europa, perché le aree interne sono totalmente dimenticate”.
I risultati non hanno tardato ad arrivare. I consumatori entrano nel contratto di rete con un preacquisto dei prodotti, sostenendo così tutte le fasi di produzione della materia prima. L’avvio della produzione, nel 2015, fu finanziato con un fundraising di circa 40.000 euro. Nel 2018 il fundraising ha portato 120.000 euro, e ha generato un fatturato di circa 500.000 euro di pomodoro. Nelo 2019 il dato dovrebbe raddoppiare. Il tutto senza ricorrere a finanziamenti legati all’accoglienza o all’inclusione. “Questo – commenta Paolo Russo – significa che si può fare. Questo processo funziona e potrebbe essere replicato in altre filiere identiche alle nostre: pasta, olio, vino ecc..
Sulla nostra etichetta – conclude Paolo – c’è scritto che vogliamo alimentare la cultura. Funky Tomato porta avanti una rivoluzione culturale, non identifica un nemico ma crede che tutti siano parte della soluzione. Ecco perché una quota del nostro vasetto viene investita in progetti culturali legati al territorio su cui andiamo a impattare”.
Riparto da Civita dopo aver mangiato una pasta con sugo Funky Tomato Tra le altre cose, devo ammetterlo, è proprio buono!
Intervista: Daniel Tarozzi
Realizzazione video: Paolo Cignini