Di Giovanna Procacci – Comitato Undici Giugno Milano
L’11 giugno scorso è iniziato presso il tribunale di Locri il processo a Mimmo Lucano, ex-sindaco di Riace, e ad altre 26 persone. E’ iniziato in un clima surreale, una città blindata, reparti speciali, un tribunale protetto dietro sbarramenti di poliziotti, qualcosa di mai visto, assicurano tutti, nemmeno in occasione del processo alla ‘ndrangheta di S. Luca per la strage di Duigsburg. Un processo “speciale” dunque, come si evince anche dalla costituzione in parte civile del Viminale e della prefettura di Reggio Calabria; neanche questo era mai successo nei processi di ‘ndrangheta.
Subito si è deciso d’altronde che le telecamere non potranno più entrare fino al giorno della sentenza; il processo sarà dunque speciale ed oscurato. Intanto il calendario delle udienze va avanti spedito; le prossima udienze saranno il 10 e il 16 luglio; c’è una prima pausa di tre settimane di cui possiamo approfittare per provare a fare una prima sintesi. Non siamo né avvocati, né giudici, né esperti e nemmeno giornalisti. Siamo semplici cittadini osservatori di un processo che ci riguarda, nella misura in cui consideriamo quanto realizzato a Riace un esempio alto di civiltà dell’accoglienza, ma anche di un processo che rischia di non dare sufficienti garanzie di pubblicità. Per questo consideriamo nostro compito monitorare ciò che vi succede, informare e mantenere viva l’attenzione pubblica, mettendo sul tavolo le domande che noi ci facciamo, il senso che diamo a quanto emerge, una valutazione “di cittadinanza” che segua il filo del dibattimento, al di là dei suoi esiti giudiziari.
Nel corso delle prime tre udienze si è avviato l’esame delle carte presentate dalla procura per richiedere il rinvio a giudizio. Sono state ascoltate le testimonianze dei funzionari del servizio Sprar (Enza Papa, Sergio Trolio, Enrico Broglia, Maisto), che hanno raccontato le numerose ispezioni svolte a Riace fra il luglio 2016 e il 2018. Sarà pure vero che, come ha osservato a più riprese il presidente del tribunale Fulvio Accurso, i loro racconti restano generici, pieni di vuoti e non evidenziano responsabilità soggettive, come invece dovrebbero fare per superare con chiarezza il confine delle irregolarità amministrative e individuare eventuali responsabilità di carattere penale. Ma dal nostro punto di vista di cittadini, conta di più il fatto che queste testimonianze mettono esattamente in luce il senso delle accuse che si sono abbattute su Lucano e Riace. Insomma, siamo già entrati nella materia viva del processo e allora vediamo di mettere insieme gli elementi che abbiamo a disposizione per una nostra valutazione.
Riace è stato uno dei primi progetti di accoglienza e integrazione in Italia, attivo dalla nascita del Piano nazionale asilo (Pna) e poi dello Sprar, istituito dalla legge 189 del 2002. Il progetto di Riace è stato uno dei primi finanziati nel 2002. “La storia del paese si è sovrapposta a quella dello Sprar”, osserva Gianfranco Schiavone, uno degli ideatori del sistema Sprar. Per anni Riace ha funzionato da modello ispiratore sia del sistema nazionale dello Sprar, sia della legge regionale calabra approvata nel 2009, sia localmente nella misura in cui, grazie all’esempio di Mimmo Lucano, molti sindaci calabresi hanno capito che l’accoglienza poteva aiutare a ripopolare i borghi. Così la Calabria è diventata la terza regione d’Italia per il numero degli Sprar, come spiega Giovanni Maiolo della Rete dei Comuni Solidali, con ben 126 Sprar su 113 Comuni. Gli Sprar hanno aiutato, in un territorio con una forte presenza della criminalità organizzata, a evitare che in alcuni contesti i fondi per l’accoglienza venissero dirottati.
Improvvisamente, dopo tanti anni di collaborazione con il sistema Sprar, nel 2016 cominciano le ispezioni che rilevano gravi anomalie. Gli strali dei funzionari che ne riferiscono in aula si concentrano in particolare su tre punti: le cosiddette “borse lavoro”, i bonus (o moneta locale) e il database degli assistiti.
Prendiamo le borse lavoro, che sono cruciali nel modello Riace. Pare abbiano contato parecchio per quei 14 punti di penalità attribuiti al Comune di Riace per “erogazione di servizi a favore di soggetti diversi da quelli ammessi all’accoglienza”. Perché diversi? E chi sono? Per capirlo, partiamo dal problema a cui le borse lavoro vogliono risponder: la durata dei percorsi di integrazione che nel sistema Sprar è di 6 mesi, eventualmente prorogabili. Come ammette lo stesso ufficio centrale, solo una persona su due riesce a raggiungere una condizione di autonomia nei tempi previsti dal sistema. Il 50% di fallimenti non è una piccola percentuale. E allora cosa fare degli altri? Ai rilievi critici mossi al Comune sui tempi lunghi di permanenza oltre il termine previsto, Riace rispondeva che in alcuni casi “non era possibile cessare con immediatezza l’accoglienza per serie e gravi ragioni umanitarie, trovandosi di fronte a nuclei famigliari con minori, anche piccolissimi, a persone malate o vulnerabili che ancora non avevano nessun luogo in cui andare”. Ecco allora chi sono i “soggetti diversi da quelli ammessi all’accoglienza”. Insomma, Lucano si rifiutava di “licenziare” le persone allo scadere del progetto Sprar, di lasciarle partire per S. Ferdinando o altri ghetti del genere, alla ricerca di un lavoro da schiavi. Con le borse lavoro, riusciva a prolungare con un inserimento lavorativo il periodo di soggiorno a Riace, per aiutarli a raggiungere una vera autonomia. A Riace ci sono sempre stati i cosiddetti “lungo permanenti”, e alla luce del sole; nel 2017 l’ufficio Sprar ne aveva autorizzati 15 su 22 richiesti, pur continuando a ritenere che rappresentassero un problema. Non è stata dunque una scoperta delle ispezioni, lo si è sempre saputo. E non si è trattato nemmeno di uno sperpero di denaro pubblico, perché le risorse economiche fornite dal ministero riuscivano a coprire tutto – accoglienza, servizi e borse lavoro. É proprio il principio che non va; devono andare via, anche se non sono ancora in condizioni di condurre una vita lavorativa autonoma, devono restare ospiti, e non inserirsi nella comunità come dei pari.
Peraltro le borse lavoro sono anche essenziali a quell’idea che è la chiave di volta del modello Riace, che fa del lavoro di integrazione degli stranieri un’opportunità di sviluppo locale per rivitalizzare una comunità che si stava spegnendo e creare un’alternativa all’emigrazione, in particolare per i giovani. Il contributo del lavoro degli stranieri ha permesso di riaprire i laboratori, di sviluppare i servizi, di riqualificare il territorio urbano, di riavviare l’economia e dare lavoro anche ai riacesi. Nei venti anni del lavoro di accoglienza, il borgo è stato restaurato, il degrado urbano ha lasciato spazio ad opere pubbliche importanti, intere aree sono state bonificate, il frantoio, la fattoria didattica, i luoghi del turismo solidale organizzati, e un lavoro importante di stimolazione culturale ha accompagnato i riacesi verso una comunità aperta.
Questa rivitalizzazione dell’economia locale aveva bisogno di uno strumento, i bonus. Non sono una moneta, ma qualcosa di molto simile ai buoni pasto che conosciamo tutti. Due gli obiettivi: rispettare l’ospite come un soggetto attivo di libere scelte, anziché passivo destinatario di un pacco alimentare e alimentare il mercato locale, con delle ricadute dirette su produttori e commercianti. Ma questi obiettivi richiedono tempismo e regolarità nell’arrivo dei fondi, oppure degli strumenti, come i bonus, che li anticipino in modo fittizio grazie a dei patti che sono stati nuove occasioni di avvicinare gli interessi degli ospiti a quelli dei riacesi. I bonus rimettono in movimento un sistema economico e creano legami positivi fra autoctoni e ospiti. Non è solo a Riace che ci si è posti la questione di far sì che il denaro destinato ai rifugiati permettesse loro di sostenere l’economia del luogo in cui sono ospitati; anzi, sono molti gli studi che dimostrano che un’integrazione efficace si ottiene dando non cibo, ma soldi per alimentare il mercato locale. Give cash, no food, è il primo principio stabilito dal prof. J. Edward Taylor nella sua ricerca per la Harvard Business Review nel 2016, insieme al secondo principio fondante, Promote long term integration, dare cioè il tempo necessario per integrarsi al fine di consentire un importante ritorno economico per il paese. Sembra la descrizione del modello Riace!
Infine il database. È stato detto in aula che era tenuto in modo caotico e insufficiente. Può darsi, ma si tratterebbe di irregolarità amministrative. Invece a noi interessa la questione non formale che viene sollevata e che va nella stessa direzione delle accuse sulle borse lavoro: anche qui riappaiono dei “soggetti diversi da quelli ammessi all’accoglienza”. Il database dimostrerebbe infatti che a Riace erano accolte più persone di quante non ne finanziava il sistema Sprar! Altro che distrazione dei fondi pubblici per l’accoglienza! Addirittura con gli stessi fondi si aiutavano più persone del previsto! Tanto di cappello! E passi pure sotto silenzio che molto spesso queste persone venivano accolte su richiesta urgente della prefettura di Reggio Calabria, oggi parte civile contro Lucano. Ma la nostra domanda sui rilievi a proposito del database è un’altra: è un reato accogliere quante più persone si può con quello che si ha a disposizione? O non c’è forse qui un’indicazione di merito che viene da Riace, per cui un sistema consolidato di accoglienza e integrazione può permettersi economie di scala che gli consentono di fare di più del previsto?
Come sappiamo tutto verrà rimesso in discussione, perché il TAR Calabria ha deciso che la chiusura dello Sprar di Riace è stata illegittima, proprio perché è avvenuta con un cambiamento di rotta improvviso rispetto a pratiche note e tollerate da anni. Ma indipendentemente da quanto decideranno i tribunali coinvolti, spetta a noi cittadini ragionare su quale sia il senso di quelle pratiche che, all’improvviso, vengono attaccate a tal punto da diventare le basi di accuse gravissime sul piano penale. Le borse lavoro, i “lungo permanenti”, nascondono una questione cruciale: è accettabile che il sistema di integrazione italiano sia a breve termine, come previsto dallo Sprar, e che alla fine del periodo le persone siano abbandonate a se stesse? O non dovremmo invece batterci perché vengano messe in piedi delle politiche di integrazione a medio e lungo termine, le uniche in grado di costruire autonomia individuale e legami comunitari? Per attuare finalmente l’art.10 della nostra Costituzione, che stabilisce il dovere dello Stato costituzionale di dare asilo al rifugiato, il che vuol dire proteggerlo e accompagnarlo verso un’integrazione piena nella comunità in cui vive.