Tra poco, due o tre anni, forse quattro, mano a mano che ci si accorgerà che i cambiamenti climatici stanno rendendo la Terra un ambiente invivibile, la gente sarà presa dal panico. E si ritroverà come i passeggeri di un transatlantico – con posti di prima, seconda e terza classe – che affonda: senza scialuppe di salvataggio e senza che l’equipaggio, come tanti capitani Schettino, sia in grado di dare indicazioni per salvarsi (non potrà più scendere neanche lui).
Gli scienziati che si occupano del clima sono unanimi (ormai i negazionisti si trovano solo tra politici e giornalisti, più qualche accademico da baraccone): la crisi climatica è già scoppiata; molte delle sue manifestazioni sono ormai irreversibili, ma in mancanza di un’inversione di rotta, la situazione è destinata ad aggravarsi, rendendo sempre più ostica per la specie umana la vita su questo pianeta (e non ce ne sono altri). Il deterioramento sta subendo un’accelerazione imprevista: fino a pochi anni fa la deadline dell’irreversibilità era stata posta a fine secolo; con il vertice di Parigi, al 2050; a Katowice (COP 24) tra 11 anni; per i glaciologi abbiamo a disposizione solo tre-cinque anni: ghiacciai e calotte polari scompaiono e l’atmosfera è inondata di metano che moltiplica l’effetto serra.
Ce ne accorgeremo tutti: il tempo sarà sempre più ondivago, cambieranno le stagioni lasciando campo libero a eventi estremi: tempeste, siccità, ondate di calore. Si contrarranno i raccolti e ci si dovrà accontentare di quello che c’è; l’acqua non scorrerà più in casa a tutte le ore; si dovranno limitare viaggi in aereo e spostamenti in auto, per non parlare di crociere e barche da diporto; i supermercati si svuoteranno di molte merci e le fabbriche che le producono della loro manodopera: ignorare i cambiamenti climatici non fa bene all’occupazione. L’arrivo di nuovi migranti, profughi climatici o vittime di conflitti scatenati dalla crisi ambientale, si farà tumultuoso; nessuno riuscirà a fermarlo, nemmeno a costo di massacri ai confini e di caos ingovernabili sia nei paesi più colpiti dal clima che a casa nostra; la Tv mostrerà tutti i giorni disastri in ogni angolo della Terra. Questo è ciò che vedranno molti di noi nei prossimi decenni. Ciò che succederà dopo, ai nostri figli e nipoti, nessuno può dirlo.
Tecnologie e conoscenze indispensabili per cambiare rotta sono ormai disponibili: le fonti rinnovabili potrebbero soddisfare in pochi decenni tutto il fabbisogno di energia del pianeta, a condizione di un loro uso oculato; le soluzioni per ridurre i consumi a parità di risultato (l’efficienza) possono contribuire a una drastica riduzione di quel fabbisogno; in campo agricolo (secondo generatore di gas serra dopo l’industria) le colture biologiche di prossimità, sostenute dai risultati della ricerca agronomica e da un rapporto più diretto con i consumatori, si sono già rivelate più produttive di quelle industrializzate, la cui resa è in calo per il deterioramento dei suoli provocato dalla chimica; diete senza o con poca carne (meno allevamenti) salvaguardano meglio la nostra salute; applicazioni telematiche consentono trasporti condivisi sia di massa che personalizzati senza più bisogno di auto individuali; ecc. Dov’è allora il problema? Perché tutte queste cose non si fanno?
Perché le élite finanziarie che dominano il pianeta sono indissolubilmente legate ai combustibili fossili: controllarli dà loro potere e sottoterra ci sono ancora miliardi di tonnellate di carbone, di barili di petrolio, di metri cubi di gas; tutti quotati in borsa, come sono quotate in borsa le imprese che producono merci legate al petrolio: dalle auto alle armi, dagli aerei alla plastica, dalle autostrade alle navi da crociera. Si ha un bel parlare di green economy, ma chi di loro rinuncerà mai a quella montagna di denaro? Ma anche politici, sindacalisti e gran parte del mondo accademico non sono in grado di guidare la transizione; oltre ai vincoli che li legano ai “poteri forti”, essa comporterebbe la chiusura di milioni di posti di lavoro (insieme alla creazione di un numero molto più alto di nuovi impieghi, sicuramente più salubri e forse anche meno afflittivi). Non ci hanno mai veramente pensato. E continuano non pensarci, nonostante i salamelecchi tributati a Greta. Ma non ci abbiamo pensato nemmeno noi; o la maggior parte di noi. E senza una condivisione diffusa che si faccia egemonia, anche il pensiero di chi lo fa non vale (quasi) niente.
Per fortuna qualcosa si muove: gli studenti (e non solo) messi in moto dall’esempio di Greta. Hanno capito ciò che politici e media si ostinano a non vedere o nascondere: nonostante gli anatemi lanciati contro di loro (“iperconsumisti!”) i giovani sono per natura meno corrotti delle generazioni più “mature”. O sono stati comunque costretti a capire che il loro avvenire è anche peggiore del precariato, della disoccupazione, della perdita di reddito a cui, bene o male (cioè molto male) si erano quasi assuefatti. Non sono soli. Accanto a loro ci sono altri movimenti, come Extinction Rebellion, quello che ha ottenuto la prima dichiarazione di emergenza climatica di un Parlamento bloccando per due settimane Londra (2000 arresti). E sono già in campo da anni contro i cambiamenti climatici e chi li causa il più grande movimento sociale dei nostri tempi, Via Campesina e molte popolazioni native dell’America Latina dell’Asia e dell’Africa da cui papa Francesco – l’unico “Grande” della Terra che se ne occupi – ha preso ispirazione per la sua enciclica Laudato Sì. Ma la discesa in campo, con scioperi mondiali (il prossimo il 27 settembre) del movimento Fridays for Future è stata uno scossone.
Poco per volta, che il mondo non è destinato a restare come lo conosciamo ora lo capiranno tutti. Per sventare il panico, accanto alla denuncia dei processi in corso e delle sue possibili conseguenze, occorre che si faccia strada fin d’ora un sapere positivo: la capacità di individuare casa per casa, scuola per scuola, strada per strada, città per città e territorio per territorio, le cose da rivendicare, imporre e praticare per realizzare la conversione ecologica. A partire da quelle che devono essere fatte subito: stop alle grandi opere, a trivelle e nuovi gasdotti, ad altre autostrade e altre olimpiadi. Attrezziamoci invece a far fronte ai tempi duri in arrivo con gli investimenti più urgenti. Non c’è alternativa.