L‘allarme per l’aggravarsi della crisi climatica e ambientale (due processi che hanno ampia aspetti comuni ma non sono esattamente sovrapponibili) e per l’intensificazione dei fenomeni meteorologici estremi si sta allargando a macchia d’olio e acquistando sempre più attenzione sui media e nell’opinione pubblica (semmai in misura minore nella classe politica e ai livelli decisionali, ancorché l’appello di dichiarazione di emergenza ambientale si stia allargando a Stati e amministrazioni a tutti i livelli). La cosa è indubbiamente positiva, ma nella fase che si apre diviene cruciale fare chiarezza su alcuni aspetti perché l’opinione pubblica potrebbe venire diretta verso obiettivi che non sarebbero realmente risolutivi del problema, e per aprire realmente prospettive di un futuro migliore. In particolare, il problema che raccoglie la crescente attenzione non solo dell’opinione pubblica ma anche degli scienziati ambientalisti riguarda l’aumento delle concentrazioni di anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera terrestre e l’obiettivo della decarbonizzazione dei nostri sistemi produttivi. Mi guardo bene dal disconoscere questa assoluta necessità, che invece i negazionisti contestano, ma mi sembra assolutamente necessario riconoscere che effettivamente la polarizzazione dell’attenzione sul problema della CO2 rischia di oscurare (forse in parte strumentalmente, come accusano alcuni critici) altri problemi cruciali, non meno importanti allo scopo di salvare il Pianeta dalla catastrofe, ambientale, sociale e umana.
La manomissione sempre più sfrenata della natura e dell’ambiente concerne moltissimi aspetti che sono strettamente correlati, e ciascuno a se di gravità epocale, per cui è assolutamente illusorio poterne risolvere uno senza affrontare gli altri. Collegarli tutti fra loro rende apparentemente il problema più complesso, ma questo punto di vista può essere rovesciato perché può unificare tanti movimenti e obiettivi che sembrano muoversi in modo separato o non coordinato: la sfida è realmente epocale e globale, e l’unione fa la forza!
Comincio dalle cose che possono essere più immediate, in termini sintetici e soprattutto senza nessuna ambizione di esaurire i problemi.
Il problema della perdita di biodiversità è indubbiamente ben presente ai movimenti ambientalisti: ma esso non si riduce al solo riscaldamento globale o alla concentrazione crescente della CO2. Sono responsabili fattori molteplici e complessi di inquinamento, sfruttamento e contaminazione che sconvolgono e riducono gli habitat naturali: la drastica riduzione degli insetti è evidente (20 anni fa il parabrezza dell’auto si oscurava per gli insetti spiaccicati, oggi non accade più), gli allarmi per la riduzione degli insetti impollinatori si susseguono (Einstein diceva che se scompariranno le api l’umanità non sopravvivrà a lungo), le specie in pericolo di estinzione si moltiplicano, un autorevole lavoro dell’Accademia delle Scienze degli USA denuncia il rischio di una sesta estinzione di massa (ve ne sono state 5 nella storia dell’evoluzione biologica, a volte con la scomparsa dell’80% delle specie viventi). La pesca indiscriminata sta impoverendo i mari, e compromettendo l’alimentazione di intere popolazioni a vantaggio della grande industria alimentare.
L’abuso sconsiderato di pesticidi dell’agrobusiness è anch’esso ben presente ai movimenti ambientalisti, e non è direttamente legato, semmai complementare, alle emissioni di CO2: è un fattore fondamentale dei processi di desertificazione, come pure la contaminazione delle acque, che diventerà sempre più un’emergenza umanitaria (che colpisce in primo luogo le popolazioni povere e sta già causando guerre per l’acqua).
Lo stesso dicasi per le plastiche, che sono certo una prodotto della civiltà (o la barbarie) del petrolio, ma che continuerebbero a avvelenare la catena alimentare anche se azzerassimo dall’oggi al domani le emissioni di CO2: il problema deve pertanto essere affrontato con misure specifiche, in un contesto generale, con estrema urgenza per la salvaguardia di tutte le specie viventi, della nostra salute, e dell’ambiente.
Più in generale il problema dell’accumulo insostenibile di rifiuti è un problema che ha certamente legami con le emissioni di CO2, ma richiede misure specifiche: rischiamo veramente di essere sommersi dai rifiuti, fra i quali è gravissimo l’aspetto dei rifiuti tecnologici. La gestione dei rifiuti apre larghe maglie all’illegalità e alle mafie, provocando fenomeni gravissimi di inquinamento.
Un altro problema di gravità epocale è l’aumento scandaloso delle disuguaglianze, che è senza dubbio legato agli sviluppi del capitalismo insaziabile, ma non è direttamente riconducibile al riscaldamento globale o alla crisi ambientale.
L’insieme di tutti i fattori e le loro sinergie stanno provocando danni alla salute a livello globale, che non sono riducibili al solo riscaldamento globale. Da una ventina d’anni si è imposto il concetto di “rivoluzione epidemiologica del 20o secolo”, un cambiamento radicale dello stato di salute della popolazione mondiale, principalmente nei paesi sviluppati: un secolo fa 50% dei decessi erano dovuti a patologie infettive (tubercolosi, diarrea e patologie gastrointestinali e respiratorie, ecc.), poi sono prevalsi i decessi per patologie cardiovascolari e tumori (circa 30% ciascuna), e si abbassa l’età della loro insorgenza (anche se nascono nuove emergenze infettive).
La minaccia di pandemie era stata più volte agitata anni fa e da tempo non viene richiamata, ma non è affatto scomparsa, rimane latente a causa delle manipolazioni sempre più profonde della materia vivente, con la creazione di particelle virali o di geni mai esistite nei 4 miliardi di anni de evoluzione biologica e in grado di saltare da un ospite a un altro1. Qui l’imputato è Big Pharma. Il deterioramento selettivo delle strutture sanitarie, con le privatizzazioni e speculazioni galoppanti, e l’aggravamento delle disuguaglianze potrebbero rendere sempre più devastante una prossima pandemia.
C’è poi un problema di fondo che di solito gli ambientalisti inspiegabilmente ignorano: le attività militari sono un fattore primario degli sconvolgimenti ambientali, e quando esplicano i loro effetti nella guerre provocano sconvolgimenti drammatici, oltre a mietere vite umane (basti ricordare l’agente Orange utilizzato indiscriminatamente nella guerra del Vietnam, o l’uranio depleto, ecc.). Si può ricordare (anche se non è il solo fattore, e forse neanche il principale) che il Pentagono è il 35esimo consumatore mondiale di petrolio, in una scala che include tutti gli Stati2:
Collegare i temi e le vertenze ambientali con gli obiettivi dei pacifisti è una necessità sempre più pressante, che fra l’altro moltiplicherebbe le forze.
Last but not least (ma ovviamente il discorso non si chiude) non si devono dimenticare le manipolazioni artificiali dell’ambiente che i militari attuano da decenni per fini bellici, quella che viene chiamata geoingegneria, trascurata (quando non ridicolizzata) sia dagli ambientalisti che dai pacifisti, su cui tanto ha insistito la rimpianta grande scienziata Rosalie Bertell (1929-2012), il suo Pianeta Terra, l’Ultima Risorsa di Guerra.
In seno al movimento ambientalista c’è chi privilegia un aspetto, chi un altro: qui non voglio pronunciarmi, il mio scopo è di evidenziare l’insieme di tanti fattori perché superare i settorialismi, o addirittura le contrapposizioni, è oggi una necessità irrinunciabile in una sfida in cui è in gioco il destino del genere umano.
1#. Non è una nozione peregrina ma un’esplicita denuncia della grande biotecnologa pentita Mae-Wan Ho (1941-2016), si veda ad esempio: Orizzontale Gene Transfer – I pericoli nascosti di Ingegneria Genetica, “L’ingegneria genetica comporta la progettazione di costruzioni artificiali di attraversare le barriere di specie e di invadere genomi. In altre parole, si migliora il trasferimento genico orizzontale, il trasferimento diretto di materiale genetico di specie non correlate.”, http://www.eltamiso.it/test/wp-content/uploads/2013/09/Articolo-e-letteratura-scientifica-su-TGO.pdf.
2#. S. Karbuz, Lunga vita al pentagono. Il consumo di petrolio da parte dell’apparato militare statunitense, 16/11/2006, https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=6672.