La scena va immaginata. Estate 2017, una riunione in una capitale africana tra le polizie di vari stati dell’Africa. Ci si scambia consigli, esperienze, racconti di come si sgomberano le manifestazioni lì, su come si tortura là, su come si incarcerano gli oppositori eccetera.
A un certo punto – secondo il racconto di un ospite che si sofferma ad ascoltare una di queste cameratesche conversazioni, forte della sua conoscenza della lingua araba – un funzionario dell’Agenzia per la sicurezza nazionale (i servizi civili egiziani) parla di Giulio Regeni e ammette di aver fatto parte della squadra che lo “prelevò” il 25 gennaio 2016 al Cairo. Non parla di quello che accadde dopo, delle torture e dell’omicidio, ma si attribuisce la responsabilità del sequestro di Giulio.
La persona in questione, tutt’altro che pentita, è uno dei cinque funzionari egiziani indagati dalla procura di Roma per sequestro di persona.
Ora è fondamentale che le autorità del Cairo accettino le richieste dei magistrati romani che, da tempo, chiedono di poter interrogare i cinque iscritti nel registro degli indagati e che anche nei giorni scorsi hanno sollecitato ulteriori riscontri, chiarimenti e informazioni.
Il governo italiano non può restare a guardare, come ha fatto in passato, come va a finire tra le procure. Il presidente del Consiglio Conte ieri ha dichiarato di aver telefonato al presidente egiziano al-Sisi proprio a proposito di una “nuova rogatoria”. E questo è decisamente il momento di una possibile svolta, in cui va esercitata grande pressione politica sul governo del Cairo.