Il 12 e il 13 aprile si è svolta a Milano la “due giorni” di Fridays for future Italia. La sera del 12 con una conferenza scientifica affidata a quattro esperti: sulle fonti rinnovabili, sulle ripercussioni in agricoltura, sullo stato della ricerca, sul negoziato internazionale e sulla dimensione sociale dei cambiamenti climatici. Il 13 si è svolta invece, per tutto il giorno, l’assemblea nazionale costituente del movimento italiano, la prima nel mondo: “d’altronde il corteo di Milano è stato il più grande di tutti”, ha detto con orgoglio uno degli intervenuti.
Se la sera prima il pubblico era “misto”, metà di giovani e metà di persone mature, il giorno dopo l’aula magna della facoltà di fisica era stracolma solo di giovani e giovanissimi (con rarefatta presenza di anziani), tra cui circa 200 delegazioni da oltre 100 città italiane. L’età media molto bassa è una caratteristica e un vanto di Fridays for future.
Per molti intervenuti, più che di studenti – “che mai ci facciamo a scuola se lì non ci insegnano altro che a riprodurre un modello di sviluppo che ha solo più pochi anni di vita?” – il loro è un movimento della “nuova generazione”: una generazione “preoccupata” se non “terrorizzata”; “la prima che sperimenta il cambiamento climatico, ma anche l’ultima che ha la possibilità di fermarlo”.
Questa coscienza di una responsabilità generazionale – “Qui, come diceva Falcone, innocente non è nessuno” e “il sistema siamo noi; per questo possiamo cambiarlo”; o anche “non ci salverà nessun altro” – ha attraversato tutto il dibattito, con una frequente contrapposizione tra “noi”, la generazione del terzo millennio, e “loro”: quelli che non hanno fatto niente per sventare quel rischio mortale, andando avanti per la vecchia strada come se niente fosse.
Per questo “occorre ammettere le colpe dei padri” evocando anche “un giusto risentimento verso le precedenti generazioni”. “C’è un elefante nella stanza, che sta per sedersi sopra di noi” perché “ci avete ignorato; ma è finito il tempo delle scuse. Adesso siamo arrivati noi”. Ma è stato anche aggiunto “Siamo giovani sì, ma non ostili a chi non lo è”.
Tuttavia il mood generale era tale per cui l’unica persona di una certa età che è intervenuta, la mamma di un “attivista” di 13 anni, ha sentito il bisogno di esordire dicendo: “Chiedo scusa per l’età”. D’altronde anche un giovane può sentirsi un po’ vecchio: “Se un anno fa mi avessero detto che sarei andato dietro a una ragazzina svedese di sedici anni – ha raccontato uno degli intervenuti – avrei pensato che mi stavano scambiando per un pedofilo…”
Gli interventi, rigorosamente contingentati nei tempi, erano organizzati intorno a quattro punti: chi siamo, che cosa vogliamo, dove andiamo e come ci organizziamo.
Tralasciando quest’ultimo, che ha reso evidenti le difficoltà di dare anche solo un coordinamento a un movimento nato da poco, e “a velocità pazzesca”, le delegate e i delegati che si sono alternati sul palco hanno fornito un quadro corale di un movimento diversificato ma unitario, creativo, colto, che sa di essere forte e di avere la ragione dalla propria parte; e che per questo può irridere ai suoi avversari: “Ma se tutti sono d’accordo con noi, contro chi stiamo manifestando?” Ma anche capace di mobilitazioni straordinarie “che non si vedevano dal tempo delle adunate degli alpini” e al tempo stesso preso dallo stupore per il modo in cui i suoi protagonisti si stanno trasformando: “Siamo qui. Greta ha smosso il mondo: sono nate di colpo amicizie tra persone che non si conoscevano”. Se il primo problema, per ora, era “combattere l’indifferenza, Fridays for future l’ha smossa”. E grazie a questo, “solo noi possiamo guardarci negli occhi, con fiducia e non con paura”, in “un movimento che nasce da un sentimento senza interessi, perché ci crediamo”. E “possiamo cambiare il sistema perché siamo gli unici a non farsi acciecare dal guadagno”. Con la coscienza, per di più, di avere un ruolo storico: “Con noi i senza diritti prendono la parola”. “Ci hanno sempre detto che ‘non c’è alternativa’. Ma l’alternativa siamo noi” e ancora: “Siamo un movimento bellissimo, la goccia che sarà l’inizio della tempesta”. Adesso, subito, “il tempo scorre, tic tac, tic tac”, “l’apocalisse è già qui” e “non possiamo aspettare di raggiungere l’età adulta”. E, tanto per cominciare: “Il prossimo autunno dovrà parlare di questa generazione”, con l’ambizione di “diventare il movimento più grande del mondo”.
Chi siamo? La formula più ripetuta, da quasi tutti, è: “un movimento apartitico”, corredato anche da qualche “antipartitico”. In effetti una delle note dominanti è stata la diffidenza e, in molti casi, un vero e proprio rigetto nei confronti dei partiti; ma anche dei sindacati, al punto che pur chiedendo che la prossima giornata di lotta del 24 maggio venga proclamato uno sciopero generale che blocchi tutto il paese per esigere misure radicali sul clima, si è voluto evitare di nominare i sindacati nella mozione finale. Ma ce n’è anche per le associazioni ambientaliste, anche loro “troppo legate ai partiti”. E dai partiti questa diffidenza è stata estesa, da alcuni, ma non da tutti, anche alle istituzioni, su cui “occorre esercitare il massimo della pressione”, ma con cui “dialogare è prematuro; non siamo ancora pronti”. A questa quasi unanimità contro i partiti si associa la denuncia delle loro strumentalizzazioni – “Parlano come noi di transizione energetica e poi finanziano i fossili” – mentre fa da riscontro un quasi incondizionato apprezzamento per la ricerca scientifica, il suo metodo e gli scienziati; fino all’affermazione volutamente paradossale che ne ricalca una di cinquant’anni fa: “Vogliamo tutto e subito. Ce lo dice la scienza”. Con ciò trascurando persino la lettera con cui un gruppo di scienziati italiani si è rivolto al movimento per avvertirlo che non tutta la scienza è allineata con le posizioni dell’IPCC, soprattutto in campi non direttamente legati alla climatologia, come medicina, agricoltura, idraulica, ingegneria, ecc.; e che non tutti gli scienziati sono esenti da condizionamenti, anche pesanti, da parte di lobby e corporation che hanno forti interessi in quei campi. Ma si capisce bene questa presa di posizione del movimento, che a volte finisce per attribuire alla “scienza” anche l’intera soluzione dei problemi: perché l’adesione ai metodi e ai risultati della ricerca scientifica è ciò che contrappone il movimento alla “politica”, quella dei partiti, che li ignorano o non li tengono in alcun conto, facendosi corresponsabili della corsa al disastro. Ma se le analisi dei climatologi sono inconfutabili e “le tecnologie per decarbonizzare completamente l’economia sono disponibili, e a costi anche inferiori a quelli dei fossili”, come era stato illustrato nella conferenza scientifica della sera precedente, di lì nasce anche una sottovalutazione del ruolo della politica, quella vera, quella fatta dai cittadini consapevoli. Quella sottovalutazione si radica in un’affermazione sbagliata di Greta, spesso ripetuta nel corso dell’assemblea, secondo cui “i politici sanno che cosa bisogna fare, le soluzioni ci sono già, ma non le applicano”. In realtà i politici di tutto il mondo non sanno assolutamente che cosa fare, e per questo continuano per la vecchia strada come se niente fosse. Perché la transizione energetica e, a maggior ragione, una radicale conversione ecologica, non sono questioni solo tecniche, ma anche e soprattutto sociali: richiedono, tra l’altro, una rivoluzione degli stili di vita, ma anche la chiusura di milioni di imprese e di progetti – e l’apertura di altri – colpendo interessi costituiti, ma anche posti di lavoro non sempre immediatamente sostituibili o riconvertibili: un processo sicuramente complesso e fonte di grandi sconvolgimenti (anche se inferiori a quelli che ci aspettano in uno scenario business as usual, senza interventi mirati). Per questo nessun politico ha la capacità e la cultura per affrontarli: si sono sempre dedicati ad altro… Di questa problematica solo alcuni degli intervenuti in assemblea hanno dimostrato di essere consapevoli (poco male, c’è tempo per affrontarla, tanto più che dovrà impegnare intelligenze e pratiche collettive per decenni). Ma a volte ha il sopravvento anche una spinta alla delega: “Nessuno di noi deve avere paura di scontentare qualcuno”, dice qualcuno, “non siamo noi a mandare a casa i lavoratori”. A risolvere problemi come questo “devono pensarci loro Non sono mancati però accenni a entrare maggiormente nello specifico: “Clima vuol dire energia, ma anche mobilità, agricoltura, allevamento, alimentazione”. Per ciascuno di questi ambiti “ci vogliono piani di transizione precisi”.
Chiaro è comunque a tutti, o quasi, lo stretto legame tra giustizia ambientale – salvare la vita su questo pianeta – e giustizia sociale – evitare che le conseguenze del degrado ambientale ricadano, come succede da tempo, sui più miseri e i più emarginati della Terra – cogliendo la stretta relazione tra deterioramento climatico e migrazioni; e anche tra migrazioni e razzismo: “Non possiamo prescindere dal razzismo. Viene negata la dignità a degli esseri umani a causa del loro paese di origine”.
Subito dopo l’adesione al metodo scientifico, tra le caratterizzazioni del nuovo movimento più citate c’è quella di “anticapitalista”; vengono poi, nell’ordine, “politico”, “pacifico”, “antifascista” e “democratico”. La connotazione di anticapitalista è stata spesso associata alla denuncia del ruolo delle multinazionali o dello sfruttamento del lavoro, che hanno “trasformato la Terra in una immensa, sudicia società per azioni”. E alla convinzione, condivisa da molti, che “il capitalismo, la radice del mondo in cui siamo nati” “non è sostenibile”: “non si può più vivere nel capitalismo che i nostri antenati hanno creato”. Non è una connotazione ideologica, come quella di chi pensa ancora che l’esito prefigurato dallo “sviluppo delle forze produttive” sia inevitabilmente il socialismo o il comunismo: due termini che non sono mai stati pronunciati. Quello sviluppo delle forze produttive ha infatti finito per volgere l’intero pianeta al peggio, per lo meno negli ultimi decenni. Tutti sembrano consapevoli che “lo sbocco” della transizione energetica o, più in profondità, della conversione ecologica, è interamente da ripensare e da costruire, anche se molto del suo profilo sembra già delinearsi attraverso alcune indicazioni per l’oggi: “diritto a un futuro felice”, “cambiare stile di vita, riducendo i consumi”, “ridurre l’orario di lavoro”, “istituire un’economia circolare”, “realizzare un cambiamento politico ed economico non più fondato sulla predazione delle risorse della Terra”, “salvare il vivente, gli animali e le foreste”, “rispettare gli animali”, “salvaguardare tutti gli ecosistemi”, “perseguire giustizia, verità e bellezza”, “superare l’antropocentrismo”, “adottare un punto di vista femminile nell’analisi dei problemi”.
Che cosa vogliamo? Qui le indicazioni sono chiarissime: innanzitutto la “decarbonizzazione rapida e totale”: “fermare l’estrazione di fossili”, “bloccare gli incentivi ai fossili”, “istituire un Green new deal”. Alcun fanno riferimento alla definizione dello sviluppo sostenibile del rapporto “Il nostro futuro comune” (1988), altri ai 17 obiettivi dell’ONU, ai rapporti dell’IPCC, all’accordo di Parigi, rilevando comunque come nei negoziati internazionali prevale sempre il compromesso.
Pareri diversi sono stati espressi sul tema dei rapporti con le istituzioni: per alcuni occorre aprire un confronto al più presto; per altri non siamo ancora pronti. Per accettare un confronto con il ministro Costa, bisogna comunque che ci sia da parte sua “un atto di buona volontà: stop a tutti i nuovi impianti”. Le prossime elezioni europee “ci riguardano poco”, ma si potrebbe comunque “sottoporre ai candidati un elenco di richieste da sottoscrivere”, per poi vedere come si comportano.
La richiesta più dirompente è comunque quella di chiedere – o esigere – dalle autorità locali o dal Governo (e dalle autorità scolastiche, per gli insegnanti di Teachers for future, che propongono anche “una disobbedienza civile di massa senza precedenti, per salvare il mondo”) “la dichiarazione di uno stato di emergenza per il clima”, in modo da “spostare il focus del dibattito” per far sì che vengano messe al primo posto tutte le misure di possibile realizzazione immediata, abbandonando iniziative e progetti dannosi per il clima e “intersecando i diversi temi per rendere il nostro punto di vista egemonico”. La lotta contro i cambiamenti climatici deve diventare la priorità a cui ricondurre e tutte le cose da fare. A partire dal “blocco di tutte le grandi opere”.
E’ questo un tema che ha visto uniti tutti quanti gli interventi: “no alle grandi opere inutili e dannose, ai grandi eventi, alle grandi navi (a Venezia), alle grandi speculazioni, a partire da quelle direttamente connesse allo sfruttamento e al trasporto dei fossili: tap, trivelle, Centro oli dell’Eni, ecc. Con l’avvertenza, tuttavia, che, a causa della scarsa o cattiva informazione “la maggioranza della gente non è contro le grandi opere”, e che “su questo tema occorre agire con cautela, spiegarci; perché dobbiamo essere i rappresentanti di tutti”. Quest’ultima, d’altronde, è una preoccupazione che ricorre in molti interventi: “Abbiamo bisogno soprattutto di chi non c’è”, “non bisogna chiuderci tra noi giovani”, “bisogna fare grandi campagne di informazione”, “coinvolgiamo anche gli anziani”; poi occorre “entrare nelle scuole”, “cambiare la didattica”, “educare gli insegnanti” e, soprattutto, “spostare gli investimenti dai fossili all’istruzione”, “finanziare ricerca e istruzione”. Tanto più che “il loro potere si basa sulla nostra ignoranza”: “abbiamo nove scuole su dieci che crollano e finanziano il TAV…”. Occorre, insomma “promuovere una rivoluzione culturale a partire dalle scuole”.
Alla fine di tutto spuntano le iniziative pratiche in cui molti sono impegnati: pulire strade e giardini a scopo dimostrativo (e non per aiutare le amministrazioni), eliminare la plastica da scuole, università ed eventi pubblici; ma “proibire anche la produzione di plastica usa e getta”, spostarsi in “bicicletta”, “mangiare meno carne e latticini”, “recuperare il cibo di scarto”, “boicottare i prodotti ad alto contenuto di carbonio”. E poi, “bloccare il traffico per farsi ascoltare” e “promuovere manifestazioni a livello regionale”. La prossima manifestazione, quella del 24 maggio, avrà invece carattere nazionale e vedrà tutti impegnati nella sua promozione. Arrivederci a maggio!
PS. I “giovani” che avrebbero sviluppato una dipendenza da smart phone, oggi al centro delle preoccupazioni di papa Francesco e di un noto editorialista di Repubblica, potrebbero “curarsi” partecipando al movimento Fridays for future, la cui assemblea ha visto il succedersi di oltre 100 oratori, quasi tutti con lo smart phone in mano, su cui leggevano l’intervento o la scaletta che avevano scritto, da soli o con i loro compagni. Ma erano proprio loro ad avanzare anche la richiesta che venga posta fine al sistema dell’obsolescenza programmata di quegli apparecchi: quel meccanismo che produce la smania per il nuovo di cui tanti moralisti, regolarmente forniti dell’ultimo modello non solo di smart phone, ma anche di tablet e computer, rimproverano i giovani di essere succubi, perdendo il senso dei “veri valori”. Non è lo smart phone a creare dipendenza, bensì la mancanza di idee, di incontri interessanti e di passioni civiche, proprio ciò che a tanti moralisti manca completamente. Lo stesso vale per l’avversione che in quell’assemblea molti interventi hanno manifestato nei confronti dell’altra vacca sacra della nostra epoca: l’automobile privata. Tra i membri di quel movimento suscita solo fastidio.