Come si crea l’opinione (pubblica) su un fatto? Mostrare un camion pieno di aiuti umanitari che brucia il 23 febbraio 2019 sul Ponte Santander, al confine tra Colombia e Venezuela, è un buon esempio. L’incendio è colpa della Guardia Nazionale venezuelana, dicono dall’altra parte del confine, da quella San José de Cúcuta dove sono stipate migliaia di scatole di aiuti che il governo di Nicolás Maduro ufficialmente non fa entrare nel Paese. È il racconto della CNN, della BBC o che viene condiviso sui social network per portare l’opinione pubblica dalla parte di Juan Guaidó, lo sconosciuto presidente del Parlamento venezuelano autoproclamatosi Presidente dell’intero Venezuela. Ma ad allargare l’inquadratura la storia è molto diversa. Praticamente opposta.

La guerra dei ponti

Tra i primi a smontare questa narrazione c’è il New York Times: ad incendiare il camion è un “guarimberos”, i manifestanti anti-Maduro mobilitati fin dal 2014 dai partiti di destra e noti per l’ampio ricorso alle tecniche di guerriglia da strada. L’intento sul ponte Santander è provocare la polizia di frontiera oltrepassando il confine a bordo di quei camion, presentati come carichi di aiuti umanitari. Aiuti a cui non partecipano né le Nazioni Unite né grandi organizzazioni come Caritas, Mezzaluna Rossa e Croce Rossa Internazionale, che denuncia l’uso non autorizzato del proprio logo da parte dei manifestanti.

Dietro a questi “aiuti”, denunciano tali organizzazioni, si nasconde la prima mossa di un colpo di Stato contro Maduro, che dal 2013 guida il Venezuela dopo la morte di Hugo Chávez. È una ricostruzione precisa di una vera e propria guerra di propaganda (monodirezionale) sui ponti venezuelani: a Cúcuta c’è anche il ponte Tienditas, noto per l’immagine dei container che ne bloccano le carreggiate. Blocchi il cui colpevole non può che essere Maduro, denuncia la stampa internazionale vicina all’opposizione. Ma il ponte, finito di costruire nel 2016, non è mai stato aperto al traffico per il mancato accordo tra le autorità di Colombia e Venezuela, tra cui sono note le ostilità. Blocchi che quindi non hanno niente a che fare con l’attuale crisi politica, come dimostrano le semplici immagini di Google.

 

È sempre il New York Times a denunciare come negli scatoloni dell’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale degli Stati Uniti – la più che controversa UsAid[1] – non ci siano cibo o medicine ma soltanto mascherine, siringhe, guanti o dentifricio. Prodotti certamente utili ma non quanto le 300.000 dosi di insulina acquistate nel 2017 dal Venezuela e bloccate da Citigroup (tramite Citibank) all’interno del programma di sanzioni illegali definito dagli Stati Uniti senza il voto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Sarà poi la Cina a fornire i farmaci.

 

Nelle immagini, come ricostruito dalla Canadian Broadcasting Corporation, il servizio pubblico nazionale canadese, il ponte Tienditas che collega le città di San José de Cúcuta (Colombia) con quella di Pedro Maria Ureña (Venezuela): mai entrato in attività per l’impossibilità di trovare un accordo tra i due governi, la terza immagine evidenzia – riprendendo semplicemente i dati google maps, che blocchi di cemento e recinzioni sono presenti almeno dal giugno 2017, ben prima cioè che esplodesse il conflitto Maduro-Guaidó (Edinson Estupinan/AFP/Getty Images)

 

Un attacco informatico dietro i blackout elettrici?

Mentre si combatte sui ponti tra Colombia e Venezuela, il governo Maduro è costretto a sospendere lezioni scolastiche ed attività lavorative per una serie di blackout elettrici che da marzo colpiscono ampie zone del territorio. Blackout indicati – ad esempio da Pino Arlacchi, ex sottosegretario generale Onu (1997-2002)  che però cita non meglio specificati «esperti del ramo, al di là del loro orientamento politico» – come parte di un capitolo venezuelano di “Nitro Zeus”, l’ampia campagna di attacchi informatici promossa contro le infrastrutture dell’Iran dalle amministrazioni Bush jr e Obama e di cui fa parte anche “Stuxnet”, il virus che nel 2010 colpisce la principale centrale nucleare iraniana (a Natanz), rallentandone le centrifughe.

 

Che l’attacco ci sia stato o meno, ha comunque colpito infrastrutture di cui sono noti scarsi finanziamenti e scarsa manutenzione, tanto che interruzioni programmate nella fornitura di luce e corrente elettrica sono usate fin dal 2016 e incentrato sulla centrale di Guri, da cui passa il 70% del fabbisogno nazionale.

 

Nicolás Maduro non è Hugo Chávez, né per estrazione sociale – ex autista della metropolitana di Caracas il primo, tenente colonnello dell’Esercito il secondo – né soprattutto per carisma. Un aspetto che oggi aiuta molto l’opposizione, soprattutto in termini di narrazione mediatica e che si aggiunge ai due grandi problemi del Venezuela degli ultimi anni: petrolio e sanzioni economiche.

 

Il petrolio come politica sociale

La crisi politica attuale è in parte figlia della iper-dipendenza del Venezuela dal petrolio, usato soprattutto dal governo Chávez (1999-2013) per portare avanti un ampio programma di sviluppo socio-economico per il miglioramento del settore energetico (“Plan Siembra Petrolera 2005-2030”, che ha definito la politica petrolifera del Paese), tra cui la destinazione di 18 miliardi di dollari all’industria del gas naturale, risorse di cui insieme a coltan, oro, rame, uranio, silicio o bauxite è pieno il sottosuolo venezuelano.

 

Con i proventi del petrolio sono state tra le altre finanziate la “Gran Misión Agro-Venezuelana” per lo sviluppo della produzione agricola o la “Misión Alimentación” per il diritto all’alimentazione della popolazione – con il quale l’Indice di malnutrizione si è dimezzato in meno di vent’anni – così come progetti per l’edilizia popolare come la “Gran Misión Barrio Nuevo, Barrio Tricolor”, che al 2019 avrebbe dovuto portare alla costruzione di 3.000.000 di nuove abitazioni popolari (ferme a quasi 700.000 al 2016) grazie alla collaborazione di Paesi come Iran, Bielorussia, Russia e Portogallo. Progetti che coinvolgono anche l‘Italia[2], che attraverso Astaldi, Ghella e Impregilo partecipa alla costruzione della rete ferroviaria venezuelana. Dal 2005, inoltre, i 4.000 pannelli fotovoltaici installati nell’ambito del programma “Sembrando Luz” hanno permesso di portare energia elettrica ed acqua potabile in alcune delle aree più isolate del Paese.

Altri dati evidenziano come il petrolio “chavista” abbia permesso di aumentare la spesa sociale tra il 2002 e il 2012, riducendo la povertà estrema dal 40% del 1996 al 7,3% del 2010. A un anno dalla morte del tenente colonnello – riporta Angelo Miotto su QcodeMag – il Venezuela è un Paese che ha azzerato la mortalità infantile (1 per mille nel 2010) e in cui la quasi totalità della popolazione (96%) ha accesso ad acque pulite, con 67.000 venezuelani che nel 2011 hanno ricevuto gratuitamente farmaci per la cura del cancro, l’epatite o la schizofrenia.

Ad oggi ogni mese 6.000.000 di famiglie sono raggiunte da casse di alimenti distribuite dai Comité Local de Abastecimiento y Producción (Clap): in termini di paragone, i virtuali “aiuti umanitari” UsAid, stanziati in 20.000.000 di dollari, avrebbero raggiunto solo 1.500.000 di famiglie.

 

Comprare competenze con il petrolio: la “petrodiplomazia” di  Chávez

1.400.000 di persone sono state salvate grazie alla collaborazione di 8.000 medici cubani nei 7.000 ospedali venezuelani – mentre oggi la Russia ha fornito oltre 7,5 tonnellate di medicinali attraverso l’OMS – nell’ambito della più nota collaborazione della “diplomazia del petrolio” utilizzata da Chávez come strumento di politica estera. Rete che spiega una parte importante dell’intera crisi politica attuale.

 

Il più noto è l’accordo “petrolio per medici” siglato con Cuba, grazie al quale il Venezuela (“Misión Barrio Adentro”) si è potuto dotare di consultori e strutture ambulatoriali popolari, mentre tecnici e urbanisti londinesi sono stati inviati nel 2006 dall’allora sindaco Ken Livingstone a Caracas, di cui Chávez vorrebbe all’epoca ridefinire la governance proprio sul modello di Londra. Ai tecnici Huawei è invece affidato il compito di portare la fibra ottica nelle aree rurali del territorio venezuelano. Pechino, che al Venezuela destina la maggior parte dei finanziamenti in America Latina e vanta con Caracas un credito di 20 miliardi di dollari, rimane oggi fedele alla sua politica di non ingerenza. Il Regno Unito, membro scontato della coalizione anti-Maduro, trattiene nella Bank of England 1,2 miliardi di dollari in lingotti d’oro di proprietà venezuelana – qualunque ne sia il governo – che Caracas potrebbe usare per abbassare il debito estero, migliorando la situazione socio-economica interna.

 

Sanzioni&rating: come si crea una crisi sociale

Secondo il Centro Estratégico Latinoamericano de Geopolitica (Celag), con sanzioni simili al Venezuela sono stati sottratti tra i 245 e i 350 miliardi di dollari l’anno. Un sistema voluto dagli Stati Uniti – che rimangono primo partner commerciale di Caracas – e che blocca tra i 7 e gli 8 miliardi di dollari di riserve estere. Blocco nel quale è stato definito un vero e proprio cordone sanitario intorno alla Pdvsa, l’azienda petrolifera di Stato venezuelana (dal 2017 controllata dai militari) che si è vista bloccare i conti e non può intrattenere rapporti con società statunitensi.

 

A rendere ancora più difficile la situazione, dal 2015 Standard and Poor’s, Fitch Rating e Moody’s – le tre principali agenzie di rating statunitensi, le stesse che hanno causato la crisi finanziaria globale del 2008[3] – continuano ad innalzare il rischio di investimento estero sul Paese, mentre nel 2016 JP Morgan definisce più pericoloso investire in Venezuela che in un Paese in guerra, nonostante Caracas quell’anno riesca a pagare 6 miliardi di dollari di debiti con l’estero.

Da quel momento è una vera e propria escalation di blocchi economico finanziari contro il Venezuela: negli ultimi tre anni istituti come CreditSuiss – 2,5 miliardi di dollari venezuelani bloccati nelle banche statunitensi – Citigroup o JP Morgan impediscono al governo Maduro di disporre del denaro necessario per ripagare i debiti o per assicurare cibo e medicine alla popolazione. A guadagnare dai blocchi è anche Goldman Sachs, che acquista bond Pdvsa (865 milioni di euro) scontati del 69%.

 

Le domande da porsi a questo punto sono due: come fa un Paese messo in queste condizioni a salvarsi (da solo)? E questa serie di manovre economico-finanziarie sono o no da intendersi come veri e propri atti di guerra?

 

Juan Guaidó, l’ultima spiaggia degli Stati Uniti in Venezuela?

A quest’ultima domanda risponde sì Alfred de Zayas, relatore speciale del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite che ha chiesto alla Corte Penale Internazionale di indagare sulle sanzioni come veri e propri «crimini contro l’umanità». Sull’ipotetico banco degli imputati ci sarebbero:

  • Donald Trump, 45° Presidente degli Stati Uniti;
  • Mike Pence, vicepresidente degli Stati Uniti;
  • John Robert Bolton, consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump;
  • Elliott Abrams, inviato speciale degli Stati Uniti in Venezuela noto per aver occultato il massacro di El Mozote in El Salvador del 1982 attraverso una falsa testimonianza dinanzi alla Commissione Esteri del Senato statunitense. José Guillermo García, all’epoca ministro della Difesa, è ancora oggi protetto come rifugiato politico negli Stati Uniti, mentre Abrams dieci anni dopo verrà condannato per aver venduto illegalmente armi all’Iran per finanziare i paramilitari in Nicaragua (scandalo Iran-Contras);
  • Kimberly Breier, sottosegretaria di Stato per gli affari statunitensi nell’emisfero occidentale;
  • Marco Rubio, senatore repubblicano;
  • Juan Guaidò, presidente dell’Assemblea Nazionale venezuelana e dal 23 gennaio 2019 autoproclamato Presidente della Repubblica;

 

È questo il nucleo principale che decide il cambio di regime in Venezuela, sviluppato dal dicembre 2018 in una serie di incontri tra Washington, la Colombia e il Brasile. Incontri nei quali lo sconosciuto Guaidò viene scelto come volto di questa operazione, nonostante l’81% dei venezuelani non lo conosca. È l’ultimo tentativo (per ora) di rovesciare il socialismo e il comunismo in Venezuela e nell’intera America Latina –  quella “Troika di tiranni” in cui Trump inserisce anche Cuba e il Nicaragua – attivo fin dal 1998 (amministrazione Clinton) ma ad oggi ancora non in grado di riportare a Palazzo Miraflores un governo neoliberista.

 

Punto di raccordo tra Washington e il “progetto” Guaidò è Leopoldo López, l’ex sindaco di Chacao – città di riferimento dell’opposizione venezuelana, come riporta Foreign Policy – condannato a 13 anni di carcere per aver guidato le proteste del 2014. Rampollo della élite venezuelana e coordinatore nazionale di “Voluntad Popular”, cable della diplomazia  statunitense lo definiscono come «figura divisiva dell’opposizione[…]spesso descritta come arrogante, vendicativa e affamata di potere» che ha, però, il vantaggio di avere un «forte impatto sulle persone», tanto da essere noto per essere uno dei leader più ascoltati dai movimenti studenteschi d’opposizione. È proprio dal mondo studentesco che arriva Guaidò, che rispetto a personalità come lo stesso López, Pedro Carmona Estanga – Presidente ad interim durante le 48 ore di golpe anti-Chávez nel 2002 – o Antonio Ledezma ha forse l’unico vantaggio di aver messo d’accordo una opposizione non certo unita. Il 35enne ingegnere Juan Guaidò è, però, presidente dell’Assemblea Nazionale quasi per caso: in assenza di leader come lo stesso López o Freddy Guevara – rifugiatosi nell’ambasciata del Cile – Voluntad Popular non ha altri nomi da presentare nel dicembre 2015, quando la Mesa de Unidad Democratica di cui fa parte decide che la presidenza dell’Assemblea Nazionale, vinta alle elezioni con 109 seggi contro i 55 del Psuv di Maduro, debba essere a rotazione.

Juan Guaidó sarebbe dovuto essere il volto – compromissorio – di quella fine del chavismo programmata con il colpo di Stato del 22 febbraio 2019 e rivelatosi invece un gigantesco buco nell’acqua trasmesso a reti (globali) unificate.

 

Troppi colpi di Stato, nessun colpo di Stato?

Secondo le stime Opec – di cui il Venezuela quest’anno è presidente – nel corso del 2019 il prezzo del petrolio dovrebbe tornare a superare i 100 dollari al barile, allentando così una crisi socio-economica che, pur aggravata da fattori esterni, nasce dalla incapacità del (per ora) ventennio chavista di emanciparsi dal petrolio.

Nonostante l’innalzamento degli standard sociali, secondo il ministro della cultura venezuelano Ernesto Villegas Pojak, «nel sistema economico sono rimaste le debolezze e le complessità storiche di una economia capitalista periferica, rentier (di rendita), importatrice e dunque dipendente»

 

Un ventennio che ha comunque visto oltre 50 emittenti radiofoniche chiuse e minacciate dal governo – tanto che il Paese è scivolato di ben 27 posizioni nel World Press Freedom Index di Reporters Without Borders – nell’ambito delle operazioni di “liberazione del popolo”, che sono costate al Venezuela l’accusa da parte dell’Onu di aver perpetrato centinaia di uccisioni illegali nelle aree periferiche del Paese. Omicidi extragiudiziali sui quali stava indagando la procuratrice Luisa Ortega Díaz, rimossa dall’incarico nell’agosto 2017, prima di poter incriminare 357 agenti di sicurezza, per essersi schierata contro la creazione dell’Assemblea Costituente (2017) che ha di fatto sostituito l’Assemblea Nazionale guidata dall’opposizione, che ha definito il nuovo organo «colpo di Stato»[4].

 

Tra Guaidà e Maduro, un Venezuela libero di scegliere

Qualunque ne sarà la soluzione, la crisi potrebbe – o, meglio, dovrebbe – rappresentare una chance per la riconversione economica del Venezuela.

Entrambi i progetti politici attualmente in campo, però, non sembrano offrire l’ipotesi di un Venezuela non petrolifero.

 

Se Nicolás Maduro e il chavismo dovessero rimanere al potere – situazione a tutt’oggi più plausibile dopo il fallimento dell’”operazione Guaidò” – per il Venezuela potrebbe aprirsi un interessante scenario ancora più distante da Washington, con i programmi di scambio petroliferi a definire nuovi blocchi di alleanze politiche e di scambi economico-finanziari come quelli già in atto con Paesi come Russia, Cina – non a caso le principali potenze mondiali, dopo gli Stati Uniti, ad investire nel petrolio di Caracas – India o Sudafrica.

 

Secondo Raúl Zibechi, tra i principali critici “da sinistra” del governo Maduro, petrolio e Cina saranno le parole chiave anche nel caso di una svolta a destra del Venezuela: «la Cina ha già avuto la meglio in Africa e sta avanzando in maniera importante in Eurasia. Gli Usa non possono perdere pure la disputa per l’America Latina, la regione chiave per la loro dominazione globale».

 

Con Guaidò a Palazzo di Miraflores – progetto che dopo il 23 febbraio pare tutt’altro che scontato e immediato – il Venezuela tornerebbe ad essere liberista, in scia con il nuovo corso dell’America Latina avviato in Argentina e Brasile. Un ritorno al passato per una popolazione che nel 1989 scendeva in piazza contro il programma di aggiustamenti strutturali che il Fondo Monetario Internazionale mise nelle mani dell governo di Carlos Andrés Pérez (1974-979; 1989-1993) e che avranno come risultato le rivolte sociali del “Caracazo” e, nel 1992, la ribellione dei militari guidata dall’allora comandante Hugo Chávez, finito in seguito in carcere.

 

Anche per gli Stati Uniti il “progetto Guaidò” è di fatto un ritorno al passato, lungo una strada che parla di dottrina Monroe e Plan Condor. Ma è – o anzi sarebbe, allo stato delle cose – anche un tentativo di Washington di fronteggiare Pechino, che ha messo sul piatto il gigantesco programma politico-economico della “Via della Seta”.

 

Quale futuro per il Venezuela tra il chavismo di Maduro e il liberismo di Guaidò?

 

A decidere quale sarà il nuovo corso del Paese non può non essere il popolo venezuelano, a cui però deve essere concessa la scelta più libera e consapevole possibile. La fine del del blocco economico-finanziario che attualmente strozza il Paese è la prima battaglia per cui debba impegnarsi la comunità internazionale. Qualunque cosa queste due parole, oggi, significhino.

NOTE

 

[1]  Tra le altre, la politica promossa attraverso UsAid – creata nel 1961 da John Fitzgerald Kennedy – ha portato lo sfratto delle popolazioni indigene de sud ovest dell’Etiopia; la rete stradale israeliana nei territori palestinesi non utilizzabile dai palestinesi stessi; il Parco Industriale Caracol ad Haiti fuori dall’area colpita dal terremoto del 2010, cementificando alcune tra le zone più fertili del Paese; l’ampio programma di destabilizzazione di Cuba, compresi un’alternativa interna a Twitter in un più ampio programma per l’allargamento della libertà di espressione (adolescenziale) nell’isola, dove dal 1999 l’Agenzia ha investito 2,3 milioni di dollari. Qui un’ampia ricostruzione storica dell’attività dell’UsAid, da Tlaxcala.es;

[2] Secondo i dati InfoMercatiEsteri: l’export italiano al 2017 – ultimo dato disponibile – è stato di 148.055.000 di euro a fronte di importazioni che, ferme sempre al 2017, si sono attestate a 167.490.000 di euro;

[3] Per approfondire: Moody’s pagherà più di 800 milioni per i giudizi sui mutui subprime – Francesco Semprini, La Stampa, 15 gennaio 2017; I signori del rating che declassano le nazioni – Federico Rampini, La Repubblica, 30 aprile 2010;

[4] Per approfondire: Venezuela, cos’è l’Assemblea costituente voluta da Maduro – AskaNews.it, 27 luglio 2017; Venezuela, è legale quanto fatto da Guaidó? Chi ha ragione tra lui e Maduro? – Camille Bello, Marta Rodriguez, Euronews, 25 gennaio 2019;