Per poter interpretare quest’evento è necessaria una serie di informazioni preliminari che aiutino a comprendere la complessità del fenomeno. Il primo passo consiste nell’interrogarsi sulle sue peculiarità, richieste e dinamiche.
Partiamo dall’inizio: il flusso migratorio verso gli USA viene dal cosiddetto triangolo nord centroamericano formato da quattro stati (Nicaragua, Honduras, Salvador e Guatemala), dove negli anni Ottanta guerre civili e movimenti di guerriglia armata hanno causato la fuga di migliaia di persone. Nel corso degli anni la topografia di questo fenomeno è cambiata e la concretezza della povertà, dell’assenza di uno stato sociale e di diritto – che ha permesso a gruppi criminali associati a livello transnazionale e localizzati in America meridionale e centrale, come las maras, di governare attraverso la violenza – ha spinto migliaia di persone a cercare un’alternativa in un altro paese.
La complessità di questo fenomeno mette in discussione sia la definizione di asilo della Convenzione del 1951 relativa allo statuto dei rifugiati, sia la dicotomia tra migrazione forzata e mobilità volontaria. Cercare rifugio deve essere inteso come il risultato di un complesso processo deliberativo motivato da una molteplicità di fattori, tutti però riconducibili alla volontà di vivere una vita dignitosa.
All’incirca da un decennio alcune associazioni della società civile organizzano le cosiddette carovane di migranti per accompagnare le persone nel loro transito attraverso il difficile territorio messicano: un tentativo di migliorare le condizioni di viaggio e di richiamare l’attenzione dei media sul tema. La traiettoria è tracciata seguendo gli alberghi dove i migranti possono dormire e ricevere una prima assistenza, si cercano accordi con le compagnie di trasporto e con i vari governi statali, e a livello federale l’obiettivo è da sempre la creazione di un visto per fare in modo che durante il viaggio queste persone godano di uno status legale diminuendone le condizioni di vulnerabilità.
La peculiarità delle attuali carovane del 2018, fino ad ora cinque, è stata la loro misteriosa genesi, molto probabilmente spontanea. Sembra siano stati social media e la facilità di comunicazione a riunire, il 13 di ottobre, un numero di persone eccezionale, rispetto alle carovane precedenti alla stazione centrale di San Pedro Sula, nella zona nord-occidentale dell’Honduras.
Può questo Exodus trasformarsi in un nuovo modo di migrare? La nascita di questa tendenza in materia di migrazione non si può comprendere con sufficiente chiarezza guardando solo al progressivo inasprimento delle politiche migratorie, concepite unicamente come questioni di sicurezza nazionale che richiedono l’uso di strumenti straordinari di controllo (cosiddetta “securitizzazione”), dai muri a progetti di esternalizzazione (offshoring) della frontiera, per tentare di fermare il fenomeno della migrazione irregolare. Un approccio politico che, nei fatti, ha invece portato ad un aumento del costo della migrazione e alla dipendenza dei migranti dalle guide (coyote o polleros) per raggiungere le loro destinazioni.
Davanti alla difficile realtà del viaggio in solitaria, la carovana riduce considerevolmente i costi ma anche i rischi: la copertura mediatica e i messaggi virali sui social media in America centrale e in Messico non solo hanno attirato un maggior numero di migranti, ma hanno anche stimolato la presenza e l’articolazione della società civile nelle tappe cruciali del viaggio.
La carovana non è solo una strategia concepita per ridurre le incognite del viaggio, ma può rivelarsi anche un’opportunità per sperimentare. Il divertimento e la condivisione diventano una forma di resilienza per appropriarsi di un senso di normalità, rafforzando le reti di solidarietà tra i migranti. Il viaggio insieme si trasforma in un’esperienza anche gioiosa, in cui si canta, si scherza e si gioca, in cui ci si può innamorare e addirittura sposare. Così che la carovana può essere un mezzo di crescita personale.
Dobbiamo ricordarci che non esiste alcuna utopia ante-litteram, nessuna dottrina o teoria compiuta: piuttosto quest’esodo risulta dalla stratificazione di diverse contingenze storiche e geopolitiche. L’Exodus non nasce per invertire il principio fondante dello Stato nazione, sfidandolo volontariamente, è piuttosto un’esperienza di trasgressione la cui dialettica si può tradurre solo in parte in una risposta alle crescenti misure restrittive delle politiche migratorie. Lo schema che condiziona il rapporto tra l’Exodus e le istituzioni è molto più complesso. Infatti, una delle sue conseguenze è stata l’esacerbazione del discorso xenofobo statunitense, oltre ad una militarizzazione del confine tra Stati Uniti e Messico. Analoghe le ripercussioni nel territorio messicano, dove il governo ha reagito con raid militari sul fiume Suchiate che separa Messico e Guatemala e con deportazioni periodiche e casuali.
Se de facto la risposta è stata piuttosto violenta, le dichiarazioni del nuovo governo del presidente messicano Manuel Lopez Obrador sembrano alludere a politiche conciliatorie, ma fanno sospettare di dipendere dalle esigenze dei vicini nordamericani. Un esempio è il recente lancio del piano “Quédate en Mexico“, che sembra assecondare il desiderio statunitense di esternalizzazione del controllo delle frontiere, trasformando il Messico in un grande filtro di migranti. Il piano prevede di processare i casi dei richiedenti asilo centroamericani facendoli permanere in territorio messicano, con la prospettiva di avviare in parallelo un nuovo piano di aiuti statunitensi per creare opportunità di impiego in loco.
Alla luce di questi interrogativi l’Exodus migrante è interpretabile come una possibilità per migliorare la mobilità delle persone o piuttosto come un incentivo all’attuale programma di sicurezza e di controllo delle frontiere degli Stati Uniti? Un’aporia che solo il cammino della storia sarà in grado di risolvere.
Articolo realizzato per Mondopoli