Viviamo in un’epoca da molti definita postmoderna. Fine (presunta) delle ideologie, coesistenza del tutto e del suo contrario in ogni ambito, trionfo del capitalismo celebrato come stato della natura. La grande vittima di questo contesto, almeno nel nostro Paese, è senza dubbio la sinistra storica che si è praticamente auto-dissolta in una sorta di frammentato Anno Zero. Per un malinteso senso della modernità, inseguendo nel corso degli anni la destra economica e persino quella securitaria, “la sinistra” ha consapevolmente dismesso la rappresentanza delle classi sociali di riferimento ed ha smarrito il suo stesso senso d’esistenza. In crisi, naturalmente, anche i così detti corpi intermedi che ad essa facevano riferimento.
C’è tuttavia un ambito, quello umanitario, che sembra ricomporre le molte anime disperse in questo calderone della postmodernità.
Di fronte alle epocali e drammatiche migrazioni, al razzismo montante e alla spregiudicata chiusura dei porti, delle frontiere e dei sistemi d’accoglienza, “restare umani” diventa, per fortuna, una grande occasione d’incontro, un imperativo d’azione, un naturale recupero di senso.
Certo non sarà l’approccio umanitario a risolvere le grandi questioni che generano le stesse crisi umanitarie. Guerre, traffico d’armi e sfruttamento neocoloniale delle risorse, ossia la triade infernale di cui l’occidente (compreso il nostro Paese) è diretto responsabile, sono i nodi politici che bisogna affrontare. E’ pur vero che l’intervento umanitario, se agito indipendentemente dai governi, da una certa autoreferenzialità e da una visione nella sostanza pietista, consentirebbe di incorporare la battaglia politica, di darle corpo e maggiore autorevolezza. Emergency è uno dei rari esempi in questo senso. Sulla scia di Emergency si è affacciata nel mondo dell’intervento umanitario una nuova interessante realtà: Mediterranea.
Dal sito ufficiale leggiamo che “…Mediterranea ha molte similitudini con le ONG che hanno operato nel Mediterraneo negli ultimi anni, a partire dall’essenziale funzione di testimonianza, documentazione e denuncia di ciò che accade in quelle acque, e che oggi nessuno è più messo nelle condizioni di svolgere (…) Al tempo stesso, Mediterranea è qualcosa di diverso: un’“azione non governativa” portata avanti dal lavoro congiunto di organizzazioni di natura eterogenea e di singole persone, aperta a tutte le voci che da mondi differenti, laici e religiosi, sociali e culturali, sindacali e politici, sentono il bisogno di condividere gli stessi obiettivi di questo progetto, volto a ridare speranza, a ricostruire umanità, a difendere il diritto e i diritti…”.
In concreto la piattaforma Mediterranea punta a tenere in acqua una nave, la Mare Jonio, nel tratto di mare che negli ultimi anni si è trasformato in una tomba per migliaia di migranti. Una operazione coraggiosa e molto costosa che sta ricevendo un corposo sostegno diffuso: oltre duemila persone (tra cui lo scrivente) e soggetti organizzati hanno aderito al crowdfunding e/o sostengono il progetto.
Tra i soggetti organizzati spicca la CGIL che giustifica la sua adesione con queste parole: “…
Sosteniamo operazione Mediterranea (…) Per ribadire il principio universale dell’assistenza a ogni uomo e donna la cui vita è a rischio, in mare, nel deserto o nei campi di detenzione (…) affinché diventi un’esperienza di mobilitazione della società civile e delle organizzazioni sindacali a livello europeo ed internazionale, a conferma dell’impegno e dell’attaccamento a quei valori e principi di una società schierata a difesa dell’umanità…”.
Teniamole ben presenti queste parole mentre ci spostiamo per un attimo in un altro quadrante geografico, quello mediorientale.
In Yemen è in atto la peggiore crisi umanitaria del pianeta: da quasi quattro anni Arabia Saudita ed Emirati Arabi, alla guida di una coalizione di “volenterosi”, hanno portato a segno 18.500 incursioni aeree, con una media di 14 attacchi al giorno. La distruzione sistematica di infrastrutture civili e di settori strategici come l’agricoltura e la pesca, unita all’embargo totale imposto sui porti yemeniti ha già causato la morte di decine di migliaia di persone anche e soprattutto per fame e malattie curabili.
Lo scorso settembre le Nazioni Unite hanno affermato che quattordici milioni di yemeniti, circa la metà della popolazione, si trovano sul baratro della fame e senza la cessazione immediata di bombardamenti ed embargo sarebbe impossibile impedire una strage di massa.
In poche parole, e con evidenze incontrovertibili, la coalizione a guida saudita ha trasformato lo stesso Yemen in un enorme lager dove è in corso un genocidio.
Ma questo sterminio premeditato è reso possibile dal lucroso supporto tecnico fornito quasi totalmente dall’industria bellica occidentale tra cui spiccano Leonardo/Finmeccanica e Fincantieri che attraverso società controllate e consorzi internazionali hanno fornito e forniranno ai Paesi del Golfo, responsabili del premeditato sterminio yemenita, cacciabombardieri, unità navali, contratti di manutenzione e supporto.
La CGIL ha detto o ha qualcosa da dire in merito considerato che la FIOM è il principale sindacato che rappresenta i lavoratori nell’industria bellica? Pare di no, anzi si.
La FIOM/CGIL è infatti molto preoccupata per la flessione del business di Leonardo/Finmeccanica che con la Pinotti ha perso uno tra i più attivi piazzisti d’armi seduti al ministero della Difesa.
“…Abbiamo nuovamente evidenziato la mancanza di un progetto Paese, aggravato dall’attuale assenza di un Governo che agisca con politiche industriali mirate in un settore strategico come quello aeronautico civile e militare, dove altri Paesi grazie all’attività e al protagonismo dei loro Governi hanno sottratto commesse e quote di mercato a Leonardo One Company…” – si legge in un comunicato del 31 maggio scorso e ancora, se non fosse abbastanza chiaro, nel comunicato del 20 luglio – “…Lo scenario geopolitico è in rapido movimento (…) La nostra valutazione, come Fiom-Cgil, è che in questo contesto, per molti versi straordinario, Leonardo non possa permettersi una gestione ordinaria, ovvero non possa restare ferma. Occorrono iniziative straordinarie a partire dal ruolo del Governo nazionale che deve mettere in campo un protagonismo forte per: rafforzare la struttura patrimoniale del Gruppo, attraverso un soggetto istituzionale pubblico, per esempio Cassa Depositi e prestiti, per liberare risorse utili a finanziare nuove tecnologie e nuovi prodotti; costruire alleanze internazionali dinamiche nel nuovo scenario geopolitico in movimento; mettere in campo una stagione di politiche industriali di sostegno all’industria del settore; investire nel mercato interno, che ad oggi assorbe appena il 18% dei prodotti (non bastano 70 milioni di euro al giorno? ndr.)…”
Posizioni inequivocabili che non lasciano trasparire neanche l’ombra di una riflessione coerentemente “umana” sul business bellico e che anzi dimostrano un particolare attivismo nel sollecitare il governo, forse un po’ meno preparato del precedente, ad affrontare le grandi sfide del mercato internazionale…
Ma allora sorge spontanea una domanda: l’intervento umanitario e “la difesa dell’umanità” sono un fatto universale o un orpello etico da esibire ad intermittenza?
Considerato che 14 milioni di yemeniti, ridotti letteralmente a pelle e ossa, non avranno mai la forza di arrivare fino al mare nostrum per tentare la sorte su un gommone, può Mediterranea sciogliere una enorme contraddizione interna e suggerire ad uno tra i suoi più autorevoli sostenitori di unirsi concretamente alle voci (tra cui il parlamento europeo) che chiedono di fermare immediatamente il traffico d’armi verso i Paesi del Golfo coinvolti nello sterminio di un intero popolo?
Restiamo umani, ma per davvero, e smettiamola una buona volta di considerare un cacciabombardiere come “un prodotto” alla stessa stregua di una lavatrice. Neanche la postmodernità può giustificare una tale devastazione di senso.