Uno stato, inoltre, il cui governo renda conto dei propri atti attraverso opportuni sistemi di controllo.

Il punto è, il movimento nonviolento vuole uno stato democratico, non teocratico.

Il movimento preme per la caduta del regime attuale in Siria, rimanendo allo stesso tempo aperto a tutte le strade nonviolente che possano portare a un reale cambio di regime. Non è da confondere con quell’opposizione “morbida” che utilizza il linguaggio della nonviolenza in Iran, per fare un esempio. Quelli del movimento nonviolento in Siria vogliono la caduta del regime, non riforme sotto l’ala del regime stesso.

Molti tra i gruppi e i singoli che compongono il movimento nonviolento islamico hanno intrapreso un imponente studio delle tradizioni nonviolente di altre culture, attraverso Ghandi, per esempio, Martin Luther King, il pensiero buddista, e Gene Sharpe.
La città di Darya, di per sè un sobborgo abbastanza conformista, a detta dei propri residenti, e conosciuto finora solo per la produzione di uva, è diventato l’epicentro del pensiero nonviolento in Siria. Come dicono gli organizzatori del movimento in città, la nonviolenza ha dato a Daraya un posto sulla cartina della Siria.

Dal 1999 al 2003, in questo sobborgo di Damasco era presente un compatto gruppo di circa 25 uomini e altrettante donne, tutti sotto i trent’anni, che si riuniva regolarmente per riflettere sulla nonviolenza e organizzare azioni civili atte a pruomuovere cambiamenti sociali e dare maggior potere all’individuo. Erano chiamati “I giovani di Daraya”.

Tra le loro attività, nel 2002 – 2003, figura l’apertura di una piccola biblioteca pubblica, la prima del genere, (immediatamente chiusa dalle autorità, peraltro), oltre a campagne contro la corruzione e tutte le pratiche correlate, ampiamente diffuse in Siria, la pulizia delle strade, marce silenziose (non autorizzate) contro l’invasione dell’Iraq da parte degli USA.

Doopo l’arresto e l’imprigionamento, nel 2003, di quasi la metà dei suoi membri per aver esercitato la libertà di espressione e di assemblea, il gruppo è ufficialmente sciolto, ma ha mantenuto una sua influenza a Darya, esercitando un importante ruolo nelle azioni di protesta a Darya sin da marzo 2011, quando è iniziato il movimento di rivolta nel paese. La loro etica fatta di responabilizzazione personale, presa di coscienza civica, pluralismo religioso, e soprattutto una nonviolenza che non è solo tattica, ma è profondamnete radicata, ha pervaso quasi tutte le azioni di protesta a Daraya che, tra le prime a muoversi nella rivoluzione siriana, continua nelle sue proteste.

Di conseguenza, la città è diventata uno dei bersagli principali del regime. Al momento, oltre 600 dei suoi attivisti sono in prigione e in isolamento, stando a una tripla verifica delle agenzie per i diritti umani. Fonti di Daraya parlano in realtà di oltre 900 prigionieri.

Anche altre città hanno visto nascere gruppi di persone impegnati nella riflessione sulla “nonviolenza islamica” prima dell’inizio della rivoluzione siriana di marzo, per esempio Namar, Dara e dintorni, Damasco, Homs : in tutte, questi gruppi sono tuttora attivi.

Da notare che ci SONO stati tentativi di appropriarsi del linguaggio della nonviolenza da parte di Hay’et al-Tanseeq, l’opposizione “morbida” e dal basso profilo interna alla Siria, che cerca il compromesso con il regime attuale.

Il lavoro congiunto di singoli e gruppi che applicano in modo assai efficace i metodi nonviolenti stanno trasformando le città siriane in focolai di resistenza nonviolenta. Tra le azioni delle ultime settimane troviamo:

a) La colorazione delle fontane pubbliche a Damasco, Aleppo, e Homs, di un impressionante rosso a simboleggiare il sangue di quanti sono stati uccisi dal regime.

b) Liberazione di palloncini con messaggi di libertà in decine di punti diversi: questo va avanti da giungo.

c) Altoparlanti che a tutto volume riproducono all’infinito la voce dell‘attuale presidente che ripete “Aiuto! Sono il presidente; tiratemi fuori da questa pattumiera” seguita da canzoni di protesta, posizionati in sette o otto punti diversi di Damasco.

Gli altoparlanti sono stati programmati con dei timer in modo da far partire la riproduzione quando chi li aveva piazzati era già lontano, al sicuro. Le forze di sicurezza, radunate, saltavano da uno all’altro, sconcertate, incapaci di spegnerli persino quando è stata chiamata una squadra di artificieri.

d) Con opera di volantinaggio hanno pubblicizzato un simbolico “spegniamo le luci sulla montagna”. La montagna in questione è il densamente popolato Monte Qasyoon, che domina Damasco. L’azione è stata poi eseguita con successo.

e) Allo stesso modo, hanno realizzato un “silenzio in città” in uno dei più trafficati mercati di Damasco, dalle sette alle nove di sera.

Si potrebbe pensare che i palloncini, lo spegnimento delle luci, le campagne per il silenzio siano tutte azioni minime, sentimentali e di poco effetto. Ma in uno stato di polizia dove i cittadini sono stati spogliati di qualsiasi possibilità di agire con efficacia, queste azioni collettive li aiutano a ritrovare il senso del proprio potere, dando loro la forza per andare oltre. Sono atti che trasformano la presa di conscienza. Sanno di avere potere.

Sono solo all’inizio. Il movimento sta producendo nuovi leader, e la spinta verso una “unificazione degli sforzi” potrebbe portare il movimento nonviolento a nuovi livelli.

La loro pietra di paragone è la parola “democrazia” piuttosto che “nonviolenza”, e tuttavia quest’ultima è certamente presente nel loro panorama intellettuale.

E se nel campo della nonviolenza di ispirazione religiosa la base è il risveglio personale, il prendersi carico del proprio destino, delle proprie responsabilità civiche e dei diritti inalienabili legati all’essere pienamente umani, si potrebbe dire che tutto ciò è paragonabile, si può metttere in parallelo all’idea delle libertà individuali, partecipazione alla vita civile, e libertà civiche.

Il movimento nonviolento qui descritto è principalmente di ispirazione islamica, e questo ha una forte presa a livello universale sull’Islam. L’approccio alla religione da parte dell’insieme dei gruppi nonviolenti contrasta con l’approccio degli Ulema tradizionali e dei sufi in Siria, così come con l’islamismo politico dei Fratelli Musulmani, per non parlare dei salafisti e degli islamici per la Jihad.

Nota storica: il moderno movimento nonviolento in Siria ha alle spalle tre generazioni.

La figura vivente più vecchia è Jawdat Said, nato da una famiglia circassa nel piccolo villaggio di Bir Ajam, nella regione meridionale di Qunaitra, la maggior parte della quale si trova nelle alture occupate del Golan. Risiede da anni sul Monte Qasyoon, a Damasco, ma ancora si reca regolarmente a Bir Ajam.

Jawdat è autore di 50 libri, a cominciare da The Doctrine of the First Son of Adam (La dottrina del primo figlio di Adamo), del 1964, basato sul rifiuto di Abele di uccidere suo fratello Caino nonostante questi intendesse ucciderlo a sua volta. Shaikh Jawdat è anche amico del Dalai Lama.

La sua dottrina di nonviolenza non va confusa con quella dell’oppositore “morbido” Mousavi in Iran. Said vuole la caduta del regime, non riforme. Non va nemmeno confuso con l’islamismo dei seguaci di Khomeini. Appartiene infatti a un’ala differente del pensiero islamico. Per esempio, sostiene che nessuna donna dovrà mai più sentirsi dire da un uomo cosa indossare, cosa che, dice, gli uomini hanno fatto per troppo tempo nella nostra storia.

La sorella Laila Said, deceduta nel 2005, un’altra grande maestra del pensiero nonviolento siriano, era stata un’icona culturale nella Damasco degli anni 70.

Hanan Laham, 68 anni, di Medan (Damasco), a sua volta predica il pensiero nonviolento. Durante una manifestazione a Daraya, il 25 aprile 2001, ha aperto il suo discorso dicendo: “La vita umana è la vita più sacra agli occhi di Dio”

Lei rappresenta uno stile ben preciso tra i variegati tipi di approcci alla nonviolenza all’interno del movimento. (Si da il caso che sia anche mia cugina per parte di padre…)

Ce ne sono tanti altri a seguire questa stessa linea di pensiero, ma nominarli li potrebbe mettere in pericolo, quindi passiamo direttamente a qualcuno che è al sicuro all’estero… Per esempio, Afra Jalabi, che vive in Canada. Firmataria della Dichiarazione di Damasco del 2005 per un cambio graduale democratico all’insegna della nonviolenza, è al momento uno dei membri del movimento di opposizione Syrian National Council.

Traduzione dall’inglese di Giuseppina Vecchia