Poco meno di due settimane fa, l’India ha deportato in Myanmar sette uomini appartenenti alla minoranza islamica Rohingya. Proviamo ad analizzare le motivazioni dietro a questo gesto e gli effetti delle reazioni della comunità internazionale.
Innanzitutto, è bene precisare lo status della minoranza Rohingya in India: la legge indiana li considera infatti semplicemente immigrati irregolari; sembra quindi ignorare completamente la loro situazione di esodo forzato, derivante dalla recente campagna di pulizia etnica – così è stata definita dall’ONU l’escalation di violenza nello stato del Rakhine – perpetrata dal Tatmadaw (l’esercito birmano) nei loro confronti. Ne consegue che il trattamento riservatogli non li vede godere di nessuno dei diritti dei quali potrebbero e dovrebbero beneficiare: da questo quadro legale emerge quindi la disposizione del rimpatrio. Questa decisione è stata duramente attaccata dalla comunità internazionale ed, in particolare, da Tenday Achiume, Special Rapporteur per l’ONU in materia di razzismo. Intervistato da Al Jazeera, egli, oltre a sottolineare la gravità dell’operazione dal punto di vista umanitario, ha dichiarato che, non riconoscendo lo status dei rifugiati, l’India potrebbe incorrere in sanzioni in quanto violerebbe delle obbligazioni legali concernenti il diritto internazionale.
Negli ultimi giorni, inoltre, il governo indiano ha ribadito l’intenzione, già espressa nell’agosto dell’anno scorso, di rimpatriare tutti gli immigrati Rohingya nel paese. Sarebbe un’operazione clamorosa visto che in India si contano circa 40.000 Rohingya, tutti ufficialmente riconosciuti come rifugiati dall’ONU, 18.000 dei quali sono in possesso di un documento di identità ufficiale, fornitogli direttamente dalle Nazioni Unite al fine di prevenire soluzioni drastiche come quelle da poco intraprese. A questo proposito, alcuni inviati di Al Jazeera hanno intervistato alcuni di questi rifugiati, ottenendo dichiarazioni a dir poco emblematiche; un esempio ci arriva dalla testimonianza di Jafir Alam, che afferma: “Piuttosto che rimpatriarci in Myanmar, uccideteci direttamente qui in India”. Questo a riprova di come, ad oggi, il destino di un Rohingya deportato in Myanmar sia già scritto.
In risposta agli ultimi avvenimenti, l’Unione Europea ha proposto di aumentare sia le sanzioni economiche che l’embargo sugli armamenti già in vigore nei confronti del paese asiatico. Il tutto sarebbe accompagnato da ulteriori sanzioni che limiterebbero la libertà del Myanmar in merito di azioni commerciali. Nei precedenti articoli sul tema, abbiamo già sottolineato come fossero necessarie delle azioni concrete da parte della comunità internazionale, per porre un freno alle atrocità compiute nel paese. A nostro avviso, al momento dell’esplosione della questione Rohingya, la risposta degli organi di competenza era stata troppo lenta e debole per poter provocare reazioni concrete da parte del governo di Aung San Suu Kyi. Tuttavia, di fronte alla situazione attuale, ci troviamo obbligati a riconoscere come anche gli ultimi provvedimenti non abbiano avuto gli effetti sperati. Per questo motivo, riteniamo che un inasprimento delle sanzioni servirà solo a dimostrare il non-immobilismo “di facciata” della comunità, senza però causare nessun vero cambiamento nelle strategie politiche del paese.
La domanda che dobbiamo porci è semplice: come mai il Myanmar non viene messo in ginocchio dalle sopraccitate sanzioni? Abbiamo provato ad ipotizzare una risposta. Sebbene le Nazioni Unite abbiano a più riprese condannato le azioni dell’esercito birmano, non tutta la comunità internazionale ha seguito le linee guida dettate dalla massima organizzazione mondiale tra nazioni. Due esempi chiave in questo senso sono senza dubbio l’Australia, della quale abbiamo già parlato in un precedente pezzo, e la Cina. Specialmente per quanto riguarda quest’ultima, il Myanmar costituisce un importante tassello nelle sue strategie sia politiche che economiche per quanto riguarda il futuro prossimo. I rapporti tra i due paesi, già di per sé buoni, verranno ulteriormente rinforzati dagli ingenti investimenti che la Cina farà in seguito alla realizzazione del faraonico progetto denominato “One Belt, One Road”, la “Nuova Via della Seta”. I capitali stranieri che non arriveranno dall’occidente verranno quindi compensati dalle centinaia di milioni di dollari che saranno investiti dal governo di Xi Jinping, che ha tutto l’interesse di mantenere buoni i rapporti con Naypyidaw. Quest’altro potente alleato, costituisce sicuramente un garante importante in materia economica per il Myanmar, che ha relativamente “le spalle coperte”, e può continuare a sopravvivere nonostante le sanzioni occidentali.