Le elezioni di domenica in Bosnia Erzegovina hanno riservato una sorpresa: non è cambiato (quasi) nulla. In un periodo storico di importanti cambiamenti globali e profonda crisi dei partiti tradizionali in tutto il mondo, lo scenario politico in Bosnia mantiene ancora una certa coerenza. Che questa coerenza si contraddistingua per la sua instabilità è un’ulteriore conferma della condizione di incertezza perenne che caratterizza il paese dagli Accordi di Dayton del 1995.
I risultati
Secondo i dati definitivi della Commissione elettorale statale, nella corsa alla presidenza tripartita del paese sono stati eletti Šefik Džaferović del Partito d’Azione Democratica (SDA)con il 37% dei voti; Željko Komšić del Fronte Democratico (DF) con il 54% e Milorad Dodik dell’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti (SNSD) con il 54% dei voti totali. L’affluenza alle urne è stata del 53,36%, in lieve calo rispetto alle ultime consultazioni generali del 2014 quando votò il 54,5% degli aventi diritto. Differente l’andamento nelle due entità che costituiscono il paese. Nella Federazione di BiH l’affluenza è stata del 51,2%, quasi due punti in meno rispetto al 53% del 2014, mentre nella Republika Srpska il dato è stato addirittura superiore a quattro anni fa, 57,3% contro il 56,9%.
Nell’entità a maggioranza serba, dando uno sguardo alla mappa del voto, Dodik ha prevalso in quasi tutte le municipalità, ottenendo complessivamente 313 mila voti contro i 249 mila di Mladen Ivanić. L’SNDS ha vinto le elezioni a tutti i livelli conquistando la presidenza della Republika Srpska, con la candidata Željka Cvijanović (47,5% contro il 42,7% di Vukota Govedarica dell’Alleanza per la Vittoria), e la maggioranza dei parlamentari sia a livello federale con il 39% che a livello di entità con il 32,3%. Dodik ha vinto anche a Banja Luka, con il 48,3% dei voti contro il 48% del suo sfidante, dimostrando anche nella capitale de facto dell’entità una certa tenuta in termini di consenso elettorale.
Più intricata invece la situazione nella Federazione di BiH dove si è assistito ad una riproposizione delle elezioni del 2010 quando Komšić fu sostenuto dalla componente civica dei bosgnacchi, distante dalle sirene del nazionalismo. Il peso della componente bosgnacca più restia a rivendicazioni fortemente identitarie è stata decisiva, anche questa volta, per la sconfitta di Dragan Čović della Comunità Democratica Croata (HDZ) e della sua politica basata sull’idea di una spartizione etnico-territoriale del paese e sulla creazione di una terza entità autonoma croata. Emblematico del peso esercitato dai bosgnacchi nell’elezione del membro croato è il risultato di Mostar. Nella parte orientale della città, abitata prevalentemente da bosgnacchi, Komšić ha prevalso su Ćović nonostante il dato complessivo riferito all’intera città abbia visto quest’ultimo ottenere il 39,9% dei voti contro il 19% del suo sfidante.
Per la componente bosgnacca, per quanto riguarda l’elezione dell’assemblea parlamentare federale l’SDA, pur registrando un calo dei consensi, si conferma ancora il primo partito con il 26% seguito dall’SDP (18,4% e in forte crescita rispetto al 9,4% di quattro anni fa). In controtendenza, da evidenziare il risultato della città di Tuzla, dove l’SDA di Džaferović ha ottenuto appena un terzo dei voti rispetto all’SDP di Denis Becirovic (10,5% contro il 31,2%).
Le attese della vigilia
Le settimane che avevano preceduto il voto potevano lasciar presagire uno spiraglio per il cambiamento. Le manifestazioni che da mesi si susseguono quotidianmente a Banja Luka dopo la vicenda dell’uccisione del giovane David Dragičević sembravano poter mettere in dubbio lo strapotere di Dodik nella Republika Srpska. Sul fronte bosgnacco, l’impossibilità di candidarsi da parte di Bakir Izetbegović poteva far pensare ad un indebolimento del suo partito, l’SDA, in favore dei socialdemocratici. Nonostante la crescita elettorale di quest’ultimi, l’SDA ha però confermato la sua forza grazie alla vittoria di Džaferović, delfino dell’ex presidente. Nemmeno la mancata riconferma di Čović, per quanto riguarda la componente croata, può esser considerata come l’avvio di un reale cambiamento visto che Komšić è stato già membro croato della presidenza nel 2006 e nel 2010. Eppure, agli occhi di un osservatore esterno, queste elezioni potrebbero apparire come una svolta storica. Nessuno dei tre presidenti uscenti è stato rieletto in questa tornata elettorale e per due dei tre nuovi presidenti, Dodik e Džaferović, si tratta della prima volta a capo delle istituzioni federali.
Le reazioni
Immediatamente dopo i primi risultati, Dodik non ha perso tempo nel chiarire le sue prossime mosse da membro serbo della presidenza federale della Bosnia Erzegovina. Ancora una volta, nelle sue dichiarazioni, non è mancata una retorica fortemente nazionalista che mette in dubbio l’esistenza stessa della Bosnia. Nella conferenza stampa dopo i risultati definitivi, il neopresidente ha affermato che il suo primo provvedimento sarà quello di imporre l’utilizzo della bandiera della Republika Srpska negli edifici istituzionali e che lavorerà esclusivamente nell’interesse del popolo serbo. Dodik non ha risparmiato un’aspra critica al suo avversario accusato di aver attuato in questi anni “politiche servili verso l’Occidente”.
Se sul fronte bosgnacco l’elezione di Džaferović rappresenta una garanzia di continuità delle politiche di Izetbegović, sul fronte croato la situazione rischia di creare un clima di profonda instabilità come già accaduto nel 2010. Čović, pur riconoscendo la sconfitta elettorale, ha velatamente minacciato la crisi istituzionale affermando che i bosgnacchi dovrebbero rendersi conto che “essi non possono eleggere anche i rappresentanti croati nella presidenza” e che i risultati del voto “possono provocare una crisi senza precedenti” sottolineando come la vittoria di Komšić sia dovuta esclusivamente al voto dei bosgnacchi, mentre l’80% degli elettori croati ha votato per lui e il suo partito.
Queste elezioni rischiano quindi di trascinare il paese in una spirale pericolosa, tra spinte centrifughe di natura nazionalista e stalli istituzionali. Già nel 2010 il paese dovette affrontare una crisi lunga un anno e mezzo in seguito all’ostruzionismo dell’HDZ, anche quella volta sconfitto da Komsić. Certamente una riproposizione di uno scenario simile rischierebbe di far definitivamente saltare il fragile equilibrio del paese.