Ridare parole e coraggio al movimento per la pace e contro la guerra
La guerra in corso in Siria e la minaccia di aggressione franco-statunitense contro Damasco hanno suscitato e continuano a suscitare attenzione ed apprensione presso analisti politici e militari e presso diverse formazioni della sinistra politica a più chiaro orientamento antimperialista; almeno quanto hanno registrato e continuano a registrare incertezza mista ad inerzia presso larga parte del “movimento per la pace”.
Non si può non constatare, con evidente amarezza se si considera la capacità di mobilitazione del mondo pacifista pure in recenti occasioni, come quella dei centinaia di migliaia contro la guerra in Iraq nel 2003, l’odierna titubanza di ampia parte di tale schieramento: incerto e spesso approssimativo nell’analisi di contesto e scenario; diviso ed altrettanto lacerato nella ricerca degli interlocutori e delle alleanze sociali; titubante, quando non del tutto assente, dalle piazze del “no alla guerra” (peraltro già in corso, almeno da due anni) e ad ogni minaccia di aggressione occidentale contro la Siria e il popolo siriano.
Anche in questo senso, duole osservare come la “parola d’ordine” del «no alla guerra senza se e senza ma», che era stata il refrain delle mobilitazioni pacifiste più avanzate ed efficaci e che con chiarezza esprimeva (ed esprime) il ripudio morale e politico di ogni avventura militare, bellicista ed imperialista, sia in larga misura scomparsa dalle dichiarazioni, dai comunicati e dagli appelli che provengono da diverse espressioni di quel mondo, fin quasi a diventare flebile sfondo di scenari consegnati al tempo che fu.
Concorrono a dare luogo a questa “assenza” diversi fattori: tra i quali pesano le approssimazioni nelle analisi che dovrebbero costituire retroterra e presupposto per qualunque appello o iniziativa. La confusione tra “aggrediti” e “aggressori” è probabilmente la più grave: leggere, proprio nel momento in cui l’asse tra l’imperialismo atlantico (segnatamente USA e Francia) e le petromonarchie del Golfo (segnatamente Qatar e Arabia Saudita) aggrava la sua minaccia di aggressione e consolida la sua ingerenza sul campo, attraverso finanziamenti e forniture ai “ribelli”, che vanno sostenute le ragioni della “rivolta” armata contro la dittatura “sanguinaria” di Damasco, può forse bastare a dare il segno di tale confusione.
Allo stesso modo, reclamare l’apertura (forzosa) di corridoi umanitari e l’imposizione (militare) di no-fly-zone, vale a dire il blocco aereo, contro il “regime siriano”, dimenticando che tali operazioni militari, assunte in via coercitiva e fuori dal quadro legittimo sancito dal Consiglio di Sicurezza, configurano altrettanto gravi violazioni della legalità internazionale e sono assimilabili a veri e propri “atti di guerra”,tradisce la debolezza dei presupposti e l’inadeguatezza rispetto alla complessità dello scenario siriano e regionale.
Non diversamente imperiale, peraltro, la posizione di quanti reclamano l’inasprimento delle sanzioni economiche contro le autorità siriane, dimentichi forse dei precedenti iracheno e jugoslavo, che stanno lì a testimoniare le gravissime ripercussioni umanitarie e sulle condizioni di esistenza delle popolazioni civili che tali misure finiscono per determinare. Cosicché l’approccio eminentemente umanitario delle grandi ONG, preoccupate (giustamente) del destino e della sopravvivenza di profughi e sfollati, finisce di quando in quando per tramutarsi in un sostegno implicito o “di fatto” a piani variamente interventistici, in spregio di quelli che sono e restano, a dispetto delle torsioni che troppo spesso assume il principio della «responsabilità di proteggere», i pilastri della legalità e della giustizia internazionali, vale a dire i principi di auto-determinazione, non-ingerenza e cooperazione internazionale.
La titubanza e la debolezza che contraddistinguono certe posizioni si traducono poi plasticamente in detti e fatti concreti: il principio del né-né (né con la rivolta armata né con il regime sanguinario) assurto a mantra auto-assolutorio dei gravi difetti di analisi e delle altrettanto gravi incongruenze di lettura dello scenario siriano; la difficoltà di identificare accuratamente le responsabilità del governo siriano per il peggioramento delle condizioni di vita dei siriani e delle siriane (non solo nel senso delle libertà di espressione ma anche in quello delle privatizzazioni e delle controriforme economiche e sociali); l’inconsistenza della presenza pubblica contro la guerra “senza se e senza ma” che, in alcuni casi, ha disertato le piazze, in altri, ha consegnato l’opposizione a tali “piani di guerra” al lato oscuro o rosso-bruno di certo anti-americanismo cripto-fascista. Con buona pace degli appelli all’unità della mobilitazione.
È grave lasciare agli analisi militari il computo dei rischi di un’avventura in Siria e il richiamo alla prudenza nella gestione di tale crisi; è viceversa urgente recuperare parole e coraggio, prendendo spunto, per una volta, dal monito inflessibile del Papa e del suo, per nulla incerto, «no alla guerra».