L’immigrazione ormai da anni è un tema fisso delle giornate di Locarno; quest’anno due film hanno posto una particolare attenzione sul tema dei rifugiati.
Sembra mio figlio di Costanza Quatriglio è, a mio parere, veramente un bel film, da non perdere. E’ la storia di un rifugiato afgano in Italia, appartenente al popolo Hazara, una popolazione che vive nell’Afghanistan centrale, in una regione montuosa, di probabile origine mongola; perseguitati da secoli, nel 1893 i Pashtun ne hanno ucciso quasi il 60% commettendo un vero e proprio genocidio. Più recentemente, nel 2001, poco prima della distruzione dei Buddha della valle di Bamiyan, i talebani hanno sterminato la comunità presente nella regione.
Il retroterra storico emerge lentamente lungo il dipanarsi del film e si materializza principalmente nelle racconto delle torture patite dal fratello del protagonista, anch’egli rifugiato in Italia. Il film ruota attorno alla dialettica interiore di Ismail, che cerca di voltare pagina, di lasciarsi alle spalle il passato e di inserirsi nella realtà del paese dove ora vive. D’altra parte il legame con la madre lo riporta costantemente a dover fare i conti con le proprie radici, in un vita sospesa tra due culture, due modi differenti di vedere la vita e i suoi passaggi fondamentali: l’infanzia, il matrimonio, la morte…
Le sofferenze patite dal fratello Hassan e rivissute da Ismail con un senso di colpa – il fratello aiutandolo a fuggire gli aveva risparmiato un uguale destino – costituiscono il legame con la storia collettiva del proprio popolo, con un destino segnato dal quale non è facile fuggire anche quando si è scappati dalla propria terra quando si era bambini.
Un vissuto molto diverso da quello di una ragazza che con Ismail collabora alla gestione del centro di assistenza ai rifugiati; anche la sua famiglia è scappata dal suo paese durante la guerra dei Balcani, ma lei è vissuta in Italia, non ha patito direttamente la guerra e le ferite aperte nella sua famiglia le appaiono lontane, altro da sé. E’ più libera di scegliere la sua nuova vita in Italia. La regista riesce con grande delicatezza a mantenersi fuori dalla narrazione; nel film non c’è alcun giudizio, né alcuna interferenza. Il ritmo, i tempi, i dialoghi sono rispettosi delle diverse culture e dei diversi paesi nei quali la vicenda si svolge: Afghanistan, Italia e Pakistan. Non c’è la pretesa di presentare figure eroiche, né di esaltare le scelte finali del protagonista che appartengono solo a lui, alla rielaborazione interiore della sua storia, che non è solo una storia privata, come ben evidenzia l’ultima parte della pellicola.
Anche Kafia, la ragazzina protagonista di Konnyu leckek (Easy Lessons) della giovane regista ungherese Dorottya Zurbò, ha dovuto abbandonare il suo paese, la Somalia, per evitare il matrimonio combinato dal padre con un anziano signore, e con la complicità della madre è giunta in Ungheria. Anche qui tutto sembra ruotare attorno al rapporto con la madre, rimasta in Somalia. Kafia sente il legame materno e i richiami ancestrali della sua cultura mentre scopre la vita europea con le sue lusinghe, che cercherà di nascondere in ogni modo a sua madre nella certezza che ella non possa comprenderle e tanto meno accettarle. Il conflitto interiore si polarizza sulla scelta religiosa o meglio sulle sembianze esterne da dare al suo credo religioso, che nei fatti non pare modificarsi più di tanto.
Ma la giovane regista ungherese sembra non reggere questa situazione di ambivalenza, di sofferenza, di indecisione e così Kafia scioglie il nodo gordiano, sceglie un percorso nel quale l’integrazione passa attraverso l’assimilazione e giunge quasi all’abiura. Non c’è traccia nel film di una possibile società multietnica, di una convivenza tra differenti culture, di una contaminazione. Il film narra una storia vera, la protagonista presente a Locarno ora è lanciata nel mondo della moda, ma l’assenza nel film anche solo dell’accenno a qualunque altra e differente possibile soluzione, la rappresentazione di Kafia sempre come unica, sola e isolata immigrata con la sua storia individuale, l’assenza di qualunque accenno alle traversie drammatiche che hanno condotto Kafia dalla Somalia in Europa, tutto questo sembra indicare allo spettatore che l’unica soluzione possibile sia la rimozione del proprio passato, delle proprie radici e l’assimilazione alla cultura del paese ospitante. Impressione rafforzata dall’assenza nel film di qualunque accenno alla condizione degli immigrati nell’Ungheria di Orban, e viceversa dalla rappresentazione di istituzioni accoglienti e pronte a relazionarsi con le necessità della nuova arrivata.
Nel dibattito successivo alla proiezione, di fronte ad una precisa domanda che le chiedeva conto della rimozione dal film dell’attuale contesto socio-culturale ungherese la regista rispondeva che ha voluto evitare in qualunque modo qualsiasi accenno dal sapore politico, limitandosi a raccontare la storia individuale di una ragazza da lei conosciuta direttamente. Se la giovane età della regista può suscitare nei suo confronti una benevola tolleranza, non si può provare lo stesso sentimento verso il pubblico che ha applaudito calorosamente il rifiuto di qualunque contaminazione politica dichiarata dalla regista. Le storie individuali di singoli immigrati che hanno raggiunto il successo possono suscitare entusiasmo ed emozione, ma possono essere usate anche per coprire vicende collettive drammatiche e senza lieto fine.
Nessuno comunque ci deve sbattere in faccia le responsabilità e i comportamenti di coloro che agiscono in nome nostro: non siamo disposti ad ascoltarle. La lontananza dalla politica e l’assenza di una visione alternativa è palpabile anche tra il pubblico di questo festival certamente non allineato sul pensiero oggi dominante in vari paesi europei.
Eldorado, coproduzione Svizzera/Germania del regista Markus Imhoof non si fa invece scrupolo di raccontare i comportamenti di alcuni nostri conterranei che sfruttano il lavoro nei campi degli immigrati e di mostrare i veri e propri ghetti nei quali sono obbligati a vivere. Un film interessante, che racconta l’operazione Mare Nostrum con riprese dal vivo sulle navi mentre si svolgono le operazioni di salvataggio e che prosegue indagando sulla vita nei campi e nei centri di detenzione. Immagini e interviste che probabilmente abbiamo ascoltato nei vari telegiornali, ma che hanno un altro effetto mostrate una dopo l’altra, in una successione che permette di ricostruire la circolarità della vicenda migratoria. Del tutto fuori tema, a mio parere, l’intreccio con la storia privata del regista che, con lunghi intermezzi, racconta il suo incontro, durante la seconda guerra mondiale, con una bambina sua coetanea in fuga dall’Italia, paragone che non regge né nei contenuti, né nella narrazione.