Ragionare sui film per riflettere sulla vita, sul nostro quotidiano in un periodo dell’anno nel quale l’attività lavorativa, in genere, rallenta e lascia più tempo per meditare e pensare; questa è la ragione principale per la quale anche quest’anno scriverò dei film che ho potuto vedere alla 71° edizione del festival di Locarno.
Una rassegna che, pur ospitando anche film hollywoodiani, continua a dedicare grande attenzione ai temi sociali – e questa è una delle ragioni delle critiche che il festival ha ricevuto da alcuni giornali della destra, quali ad es. “il Foglio” – e a mantenere “porte aperte” su paesi a noi lontani, le cui vicende storiche sono spesso sconosciute al grande pubblico che resta il destinatario di un festival che certamente non è di nicchia.
Oltre ai film in concorso e ad alcune pellicole fuori concorso, ma destinate ad avere ampio audience nei prossimi mesi, grande interesse hanno riscosso le sezioni: “Open doors” quest’anno dedicata a Afghanistan, Bangladesh, Bhutan, Maldive, Myanmar, Nepal, Pakistan e Sri Lanka e “La settimana della critica”, che ha presentato sette documentari su alcuni dei temi oggi al centro del dibattito globale: da Gaza alla distruzione delle foreste, dalla rivendicazione della sessualità e del piacere femminile alla critica alle rigide strutture psichiatriche, dall’immigrazione alle vicende siriane.
Come ben sapete non sono un critico cinematografico; le mie non sono recensioni per cinefili, ma ragionamenti attorno a pellicole che a mio parere offrono spunti di riflessione sul mondo, sulla realtà, su noi stessi… ovviamente senza dimenticare qualche suggerimento per chi vuole divertirsi , per gli amanti delle commedie piuttosto che dei thriller.
Questi i titoli delle puntate che oggi prendono l’avvio:
- Da Singapore all’Europa, l’insostenibile leggerezza del lavoro
- Essere rifugiati oggi: assimilazione o integrazione ?
- Giovani e anziani tra il dominio dei social e la miseria del quotidiano
- L’arte dei forti: Israele, il razzismo, le guerre
- Dieci frasi per dieci film da vedere
P.S. Per la prima volta durante il periodo del Festival sono stati attivati dei laboratori sulla produzione di video e con progetti di animazione destinati ai bambini, figli di chi frequenta o lavora al Festival. Iniziativa meritoria sul piano culturale, ma che nasce sotto il segno del business: i laboratori avevano costi significativi e contemporaneamente veniva chiuso un servizio pubblico d’intrattenimento per i più piccoli che aveva funzionato ottimamente per oltre dieci anni ad un prezzo politico di 3 franchi al giorno. Un ulteriore piccolo, ma significativo, segno del trionfo del business sui servizi di pubblica utilità.
Festival di Locarno 2018 – 1. Da Singapore all’Europa, l’insostenibile leggerezza del lavoro
Il lavoro nell’epoca della crisi globale è senza dubbio stato uno dei temi centrali del festival. Un lavoro osservato nei diversi angoli del pianeta, differente per scenografie, per tecnologie e per quantità di denaro circolante, ma drammaticamente simile per i sentimenti che animano i protagonisti: ansia, paura, disperazione, in contesti ove dominano, sotto differenti e mentite spoglie, la precarietà e l’incertezza non solo del futuro, ma anche del presente. Vissuti che sono l’altra faccia della ricerca del massimo profitto a tutti i costi, che trasforma i corpi degli esseri umani o in macchine da soldi o in fastidiosi fardelli dai quali liberarsi senza andare troppo per il sottile.
Significativa la scelta di attribuire il Pardo d’Oro a “A Land Imagined” una coproduzione di Singapore/Francia/Paesi Bassi del regista Yeo Siew Hua. Un giallo ambientato nel caotico e frenetico mondo del lavoro di Singapore con al centro la vita degli operai immigrati da paesi asiatici quali Cina e Bangladesh. I loculi per dormire, gli immensi caseggiati dove si ricompongono le comunità per nazione di provenienza, il controllo della mobilità attraverso l’appropriazione dei passaporti altrui, lo scambio d’identità, l’assenza di qualunque misura di sicurezza nelle mansioni a rischio sono gli ambienti dentro il quale un poliziotto cerca di scoprire il destino di un lavoratore scomparso. Realtà e fiction si fondono senza alcuna cesura, così come lo scenario ancora novecentesco di un cantiere edile si compenetra, senza scossoni, con il mondo dei social e con le ultime frontiere della comunicazione.
“The Road to Mandalay”, una co-produzione Taiwan/Birmania/Francia/Germania del regista Midi Z, racconta un’altra storia di migranti: i protagonisti sono giovani birmani attratti dalla vicina Thailandia, il cui obiettivo primario è la ricerca di un lavoro per sopravvivere e per sostenere le famiglie rimaste nella città natale. Ma le aspirazioni dei protagonisti sono differenti: c’è chi pensa di rientrare nel paese natale per avviare una propria attività, chi invece cerca un trampolino di lancio verso una scalata sociale alla quale non pone limiti. Simile è invece la realtà lavorativa con la quale devono confrontarsi, dove ogni tentativo di ottenere il permesso di soggiorno s’infrange su una gigantesca corruzione che avvolge ogni settore dello stato thailandese e che, sommata all’assoluta discrezionalità che caratterizza l’azione dei datori di lavoro, mantiene nell’incertezza la loro vita. La pellicola restituisce con grande realismo l’immagine dei luoghi di lavoro in Thailandia, mentre la distanza geografica e culturale può forse permettere a qualche spettatore occidentale di diventare partecipe dell’anelito verso il sospirato permesso di soggiorno, senza entrare immediatamente nel circuito mentale del “ci rubano il lavoro”, riflesso che purtroppo sembra essere oggi egemone alle nostre latitudini. Ma il film sottolinea anche come il contesto sociale non cancelli le responsabilità e le scelte individuali di ciascuno.
A migliaia di chilometri di distanza, in Europa, un altro uomo, un manager protagonista di Ceux qui travaillent (Quelli che lavorano) produzione svizzero/belga con la regia di Antoine Russbach, si trova a dover compiere scelte fondamentali sul lavoro e a dover fare i conti con le sue aspirazioni e con le aspettative della propria famiglia. In scena vi è il capitalismo globalizzato, rappresentato in uno dei settori fondamentali del proprio sviluppo: la logistica delle multinazionali e il trasposto delle merci dai quattro angoli del pianeta. Un manager di successo, che si è costruito dal nulla, ha talmente interiorizzato l’imperativo “al primo posto il profitto” che non si ferma troppo a riflettere quando si tratta di sacrificare una vita per non perdere un atteso guadagno. In fondo non è poi così difficile, lui non sarà mai costretto a guardare il volto dell’uomo del quale ha deciso il destino, come non deve ogni giorno guardare negli occhi i tanti che lavorano in condizioni disumane nella filiera della sua azienda. Ugualmente i suoi colleghi, i suoi capi, la sua famiglia possono tranquillamente condannarlo per la scelta compiuta senza soffermarsi a chiedersi se proprio scelte simili non siano alla base del loro stile di vita, della loro agiatezza economica. Ma la sofferenza altrui non si vede, quindi non c’è.
Lo stesso manager quando viene licenziato improvvisamente fa esperienza su se stesso di come il capitalismo globalizzato non si fermi davanti a nulla e dell’assenza di ogni solidarietà: homo homini lupus – ogni uomo è lupo per l’altro uomo – è infatti il messaggio diretto che gli giunge dai suoi colleghi. La doppiezza etica domina anche nella sua famiglia: il suo ruolo è quello di portare i soldi, strumento di compensazione per la sua assenza nella vita familiare quotidiana. Sta a lui, privato del suo ruolo sociale e ormai consapevole degli ingranaggi nei quali è inserito, prendere una decisione.
Tre film molto belli, da vedere quando e se usciranno in Italia e che insieme aiutano ad avere una visione a 360° del mondo del lavoro. Il conflitto sociale in questi film non è rappresentato, né sono visibili i soggetti che potenzialmente potrebbero agirlo e questo certamente è il prodotto delle recenti sconfitte dei movimenti collettivi, ma in ognuna delle storie individuali raccontate emergono con forza le ragioni di una contrapposizione, di uno scontro sociale vissuto localmente, ma d’interesse globale, che pare solo rinviato.
Anche Hai shang cheng shi, (The Fragile House) produzione cinese del regista LIN Zi che ha vinto il premio di “Signs of Life”, destinato all’uso di forme narrative inedite e all’innovazione del linguaggio cinematografico, ha affrontato il tema della crisi: la banca non dà prestiti, il datore di lavoro non è in grado di pagare i dipendenti e la vita familiare si complica. Ma la trama appare banale, lo svolgimento lento e ripetitivo.