Yes we can è il famoso slogan simbolo della campagna elettorale che ha portato per la prima volta Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti d’America. Meno conosciuto è lo stesso slogan in lingua spagnola, Sí se puede. Questo però non è riferito alla campagna elettorale di un candidato alla presidenza di un paese, è piuttosto un mantra, uno slogan capace di dare coraggio e fiducia a tanti cittadini spagnoli che in questi ultimi anni hanno dovuto accettare pesantissimi cambiamenti della loro vita, che i governi di turno hanno giustificato con un’unica parola: crisi. Crisi che ha colpito – e sembra non voler abbandonare – sopratutto i paesi del Sud Europa, quasi fosse una calamità naturale. A vedere da vicino alcune realtà andaluse allo slogan non ha fatto seguito una grande vittoria di un solo uomo, ma delle piccole vittorie di molti. Esperienze diverse che danno un po’ di speranza in questo periodo nel quale l’unica risposta alla crisi sembra essere l’austerity.
Uno di questi esempi è quello di Marinaleda – un comune andaluso di 2.800 anime a un centinaio di chilometri da Siviglia – che si fa conoscere ai più per uno storico sciopero della fame nell’agosto del 1980 e successivamente per le occupazioni di terre incolte. Qui quasi tutti lavorano e quasi tutti hanno una casa, anche se il sindaco Manuel Sanchez Gordillo in carica da più di 30 anni, viene criticato da alcuni cittadini per questa sua lunga e ininterrotta esperienza alla guida del paese. Una delle critiche più frequenti è quella di sfruttare gli aiuti del governo centrale, anche se in realtà si tratta degli stessi aiuti che ricevono anche gli altri pueblos della zona; la differenza sta nel come vengono amministrati. Nei paesi più vicini in effetti la situazione è molto diversa, ad Estepa per esempio buona parte della popolazione lavora nelle fabbriche dolciarie, mentre a El Rubio la gente ha preferito emigrare piuttosto che lottare. Trovare voci critiche tra gli abitanti è praticamente impossibile; gli attacchi arrivano per lo più da fuori, dai grandi partiti che puntualmente provano a presentare dei candidati sindaco a ogni tornata elettorale e che finora si sono dovuti accontentare di pochi consiglieri.
Marinaleda però è solo una delle esperienze alternative in Andalusia. In realtà altre occupazioni di terre si sono succedute, sopratutto nell’ultimo anno. Senza dubbio il modello è stato di ispirazione, tutte le esperienze di occupazione di terre ne hanno uno più che mai attuale che era di Emiliano Zapata “la terra a chi la lavora”. Occupare è diventato un modo per rispondere a una situazione di disagio per la mancanza di risposte politiche; molti spagnoli si sono resi conto che manifestare non è più sufficiente, non serve e non porta a soluzioni concrete.
I disoccupati chiedono terra da coltivare in una zona d’Europa dove la riforma agraria risale al 1932: per questo ancora oggi il 2% dei proprietari terrieri possiede il 50% delle terre andaluse. Alla base delle occupazioni, che certamente nascono per uno stato di necessità estrema, sono legati anche discorsi più ampi come la sovranità alimentare, il km 0 e più in generale un ritorno all’attenzione per quello che si consuma e gli effetti che si hanno nel produrre. È anche in quest’ottica più ampia che la terra a chi la lavora in Andalusia inizia ad essere realtà.
E l’occupazione non riguarda solo le terre, ma anche gli edifici. In Spagna all’inizio del 2013 si superano i sei milioni di disoccupati e una delle conseguenze più drammatiche alla perdita del lavoro è la perdita della casa. Nel 2012 si contava uno sfratto ogni cinque minuti. L’indignazione ha fatto da propulsore e grazie anche al sostegno dei movimenti sociali nati negli ultimi anni – in particolare il 15M (più noti come Indignados) e la PAH (Plataforma Afectados po la Hipoteca) – molte persone hanno preso coscienza che le ragioni sono da ricercare in un sistema sbagliato e nelle politiche che favoriscono ancora una volta i grandi capitali, le speculazioni edilizie a discapito delle persone. Come reazione a questa situazione paradossale all’inizio del 2012 nella capitale andalusa cominciano le occupazioni di edifici vuoti, quelli che tornano in possesso di banche e grandi società immobiliari, perché sgomberati con sfratti esecutivi. Le occupazioni non sono clandestine, ma pubbliche e mettono in discussione le leggi sulla proprietà privata, contrapponendola alla funzione sociale dell’abitazione, ma sopratutto chiedono una revisione delle leggi sugli sfratti. Le Corralas – così si chiamano – vengono scelte con cura e le famiglie iniziano a viverci chiedendo di poter pagare un canone di affitto sociale.
Anche il mondo accademico si è impegnato per dare soluzioni percorribili da un punto di vista legale. Un gruppo di studenti della facoltà di legge di Cordoba – guidati dal loro professore – ha elaborato una serie di proposte e le ha presentate personalmente ad alcuni gruppi parlamentari al Congresso di Madrid. Se in un periodo così complicato da un lato siamo di fronte all’immobilismo delle istituzioni, dall’altro le esperienza spagnole dimostrano che esistono alternative.