La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 28309 del 5 aprile 2018, ha ritenuto legittimo il trattenimento di una missiva indirizzata dal detenuto ad una congiunta, precisando che “sia in ragione della finalità del regime differenziato di cui all’art. 41 bis ord. pen., sia di quella della limitazione della corrispondenza di cui all’art. 18 ter ord. pen., per il mancato inoltro della corrispondenza non è necessaria la prova della commissione di reati o della pericolosità della missiva, ma è sufficiente il ragionevole timore di un pericolo per l’odine e la sicurezza degli istituti1”. Nel caso concreto “F. [detenuto] aveva chiesto a B. di inviare una somma di euro 200 al proprio legale per la iscrizione al partito radicale; in realtà era quasi certo che la somma fosse indirizzata a sostenere l’associazione “Nessuno tocchi Caino”, in aggiramento del divieto imposto da una circolare del D.A.P.2”: quest’ultima circolare, infatti, vietava rapporti epistolari tra i detenuti sottoposti al regime 41bis e l’associazione, al dichiarato fine di evitare l’insorgere di proteste da parte della popolazione carceraria.
Uscendo dal caso concreto, occorre sottolineare che il Magistrato di Sorveglianza, nel momento in cui si trova ad operare censure o controlli sulla corrispondenza dei detenuti, è chiamato a rinvenire un difficile punto di equilibrio tra la tutela della libertà inviolabile della corrispondenza, sancita dall’art. 15 Costituzione, e le esigenze di sicurezza. La difficoltà insita in tale compito è ben esemplificata da un altro recente caso giurisprudenziale, nel quale il Magistrato di Sorveglianza di Sassari disponeva il blocco di una missiva inviata da un detenuto alla nipote per il fatto che la lettera risultava redatta in inglese: si riteneva, infatti, che “la traduzione e, se del caso, la conveniente decrittazione della corrispondenza dalla lingua straniera […] non costituiscono attività, allo stato dell’organizzazione della struttura penitenziaria, pacificamente realizzabili in via routinaria, dovendo invece ritenersi che tali operazioni possano, in ragione dei mezzi e del personale concretamente a disposizione di singoli plessi penitenziari, anche integrare ostacolo non ordinariamente superabile3”. Le ragioni di sicurezza, con buona pace dei diritti costituzionali, sembrano, in sostanza, orientare sempre e comunque molte delle pronunce intervenute in tale contesto. L’esigenza di sicurezza pare atteggiarsi come un vero e proprio “istinto di sopravvivenza” dell’ordinamento che, non appena viene solleticato, non tarda a manifestarsi ed a travolgere qualsiasi diritto del detenuto che sembri mettere in discussione l’esistenza dell’ordinamento.
Nella libertà inviolabile della corrispondenza del detenuto, tuttavia, dovrebbe inevitabilmente inserirsi anche una riflessione sul concetto stesso di pena “tendente alla rieducazione del condannato”: sarebbe un errore, infatti, parlare di diritti nel contesto carcerario dimenticandosi della funzione della pena. Se è vero, ed è vero, che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato allora risulta difficile comprendere il blocco di una missiva in ragione del “ragionevole timore di un pericolo per l’ordine e la sicurezza degli istituti”. Una tutela “anticipata” dell’ordine e della sicurezza delle carceri, infatti, si ravviserebbe nella limitazione della corrispondenza giustificata da “un pericolo” concreto: già tale concetto, purtuttavia, si presterebbe a non facili valutazioni discrezionali del magistrato di turno. Parlare di “ragionevole timore di un pericolo”, però, significa “anticipare” l’anticipazione della tutela penale: un vero e proprio non sense frutto dell’istintualità giuridica.
Allo stesso modo non si può condividere il blocco di una missiva per il semplice fatto che fosse redatta in lingua inglese: il carcere rieducativo non può porre alla base di un divieto la mancanza di personale o di strumenti idonei a tradurre una lettera scritta in lingua diversa da quella italiana. Il carcere, d’altronde, non deve essere, e non è, una voce del “bilancio giustizia” a costo zero: finché verrà visto in tale modo non potrà rispettare i principi costituzionali. La corrispondenza dei detenuti vive, pertanto, in una sorta di limbo tra la rieducazione della pena e l’istinto di sopravvivenza dell’ordinamento: un limbo figlio di un carcere che è “un’istituzione al tempo stesso illiberale, disuguale, atipica, almeno in parte extra-legale ed extra-giudiziale, lesiva della dignità della persona, penosamente e inutilmente afflittiva4”. Come scriveva il Ferrajoli “di questa istituzione sempre più povera di senso, che produce un costo di sofferenze non compensato da apprezzabili vantaggi per nessuno, risulta ormai giustificato il superamento o almeno una drastica riduzione della durata sia minima che massima5” e, si potrebbe aggiungere, risulta giustificato e necessario il superamento di censure e limitazioni fondate unicamente sul “timore di pericoli” e mere esigenze di sicurezza.
La sicurezza non può e non deve essere il “grimaldello” col quale scardinare i diritti inviolabili dell’uomo poiché “dal primato della persona umana, proprio del vigente ordinamento costituzionale, discende, come necessaria conseguenza, che i diritti fondamentali trovano nella condizione di coloro i quali sono sottoposti ad una restrizione della libertà personale i limiti ad essa inerenti, connessi alle finalità che sono proprie di tale restrizione, ma non sono affatto annullati da tale condizione6”: il primato dell’uomo, in quanto essere vivente titolare di diritti e padrone della propria dignità, deve essere il faro capace di orientare le scelte penali rese, oggi più che mai, difficili dai venti politici e sociali che soffiano per agitare le acque, già mosse, del mare giuridico.
“Ho chiesto al meglio della mia faccia una polemica di dignità, tante le grinte, le ghigne, i musi, vagli a spiegare che è primavera e poi lo sanno ma preferiscono vederla togliere a chi va in galera7”.
1– Cassazione Penale, sezione I, 5 aprile 2018, n. 28309
2– Ibidem
3– Cassazione Penale, sezione I, 20 luglio 2017, n. 4994
4– Ferrajoli L., Diritto e Ragione. Teoria del Garantismo Penale, Laterza, Bari, 2011, pagina 410 e seguenti
5– Ibidem
6– Corte Costituzionale, 23 ottobre 2006, n. 341