E’ in corso in questi giorni l’annuale marcia della pace organizzata dall’associazione bosniaca “Svjedoci svog vremena”(Testimoni del loro Tempo), in cooperazione con diverse sigle sindacali, per ricordare il genocidio di Srebrenica. Partita il 3 luglio scorso da Sarajevo, la marcia si conclude l’11 luglio a Potocari, sede del mausoleo ove hanno trovato sepoltura le vittime di quello che è stato l’episodio più drammatico dell’intero conflitto nell’ex-Jugoslavia.
I fatti
La data non è casuale, ovviamente, ma coincide con quella dell’ingresso del generale Ratko Mladic e delle truppe serbo-bosniache a Srebrenica. Era il 1995 e i fatti sono noti: l’accerchiamento durato oltre tre anni, la città dichiarata “area protetta” dall’ONU ma, di fatto, abbandonata al proprio destino e, infine, il massacro di oltre 8000 cittadini inermi, perlopiù musulmani maschi. Permangono, tuttavia, molte zone d’ombra sulla vicenda, una su tutte il sospetto che la città fu “sacrificata” dalle potenze occidentali sull’altare della realpolitik in cambio dell’allentamento dell’assedio di Sarajevo e del raggiungimento di un accordo di pace con i serbi.
Le condanne
Sul fronte giudiziario molto è stato fatto e dopo i primi ergastoli comminati a personaggi di “secondo piano”, è arrivato anche il giudizio per il principale responsabile politico di quella carneficina, Radovan Karadzic. Riconosciuto colpevole, tra l’altro, del genocidio compiuto a Srebrenica, è stato condannato dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia delle Nazioni Unite (ICTY) a 40 anni di carcere in primo grado, tra le proteste incrociate dei parenti delle vittime, che hanno ritenuto la punizione troppo “mite”, e dei governi serbo e russo che hanno parlato, al contrario, di “giustizia selettiva” e “sentenza politica”.
Per conoscere la sorte definitiva dell’ultimo protagonista, Ratko Mladic, bisognerà invece aspettare la sentenza d’appello, dopo la condanna all’ergastolo inflittagli in primo grado nel novembre scorso. Sulla sua testa pendono, oltre agli undici capi d’accusa per i quali è stato riconosciuto colpevole, anche le parole con cui il procuratore Alan Tieger ne richiese la massima pena: “Qualunque condanna diversa da quella massima prescritta dalla legge – l’ergastolo – sarebbe un insulto alle vittime, vive o morte, e un affronto alla giustizia”.
D’altra parte molti dei presunti colpevoli dell’eccidio sono, ad oggi, ancora a piede libero in Serbia, come Milorad Pelemis, capo del famigerato 10° Distaccamento di sabotaggio dell’esercito serbo-bosniaco e responsabile, secondo l’accusa, d’aver massacrato centinaia di persone presso la fattoria di Branjevo, dopo averle deportate da Srebrenica. E’ proprio in considerazione di questa situazione che Murat Tahirovic, presidente dell’Associazione delle vittime di Srebrenica, ha amaramente commentato in questi giorni che non esiste, da parte serba, un vero desiderio di cooperare con la Bosnia Erzegovina per perseguire i criminali di guerra nonostante l’accordo formale stipulato tra i due paesi nel 2013.
Il fronte politico
Ma se, seppure con delle lacune, la giustizia pare aver completato larga parte del proprio percorso di condanna delle colpe individuali, è sul fronte politico, e in particolare su quello del riconoscimento delle responsabilità dei singoli Stati, che il cammino sembra più impervio. Se è vero che nel 2017 l’Olanda è stata definitivamente ritenuta “civilmente responsabile” dall’ICTY per la morte di 300 civili uccisi a Srebrenica, è altrettanto vero che la condanna dello stato serbo per il genocidio non è invece arrivata. Né mai arriverà, come confermato dal pronunciamento della Corte Internazionale di Giustizia che ha respinto la richiesta di revisione della sentenza con cui nel 2007 la medesima corte aveva concluso che “la Serbia non è direttamente responsabile per il genocidio di Srebrenica” pur sottolineando che essa “non ha fatto tutto quello che era in suo potere per impedire il delitto di genocidio”.
Anche l’iter per il riconoscimento ufficiale delle Nazioni Unite di Srebrenica come genocidio sembra definitivamente sbarrato. A tal proposito esiste solo una sentenza formulata dall’ICTY nel 2004, ma il veto imposto dalla Russia nel luglio del 2015 sulla bozza di risoluzione al Consiglio di sicurezza ha, di fatto, impedito che vi fossero ulteriori sviluppi nel processo. La parola genocidio, dunque, scava una trincea incolmabile e sembra dividere in modo irreparabile i bosgnacchi dai serbi e, dunque, i bosniaci tra di loro.
Srebrenica oggi
Srebrenica arriva oggi a queste celebrazioni come l’esatto ritratto dello stato di salute dell’intero paese: in profonda crisi economica e sociale come dimostrato da uno spopolamento inarrestabile che ne ha ridotto ad un terzo i cittadini rispetto a quelli registrati prima della guerra. E ancora: spaccata su basi etniche e tormentata dall’impossibilità di trovare una narrazione comune dei fatti che l’hanno così tragicamente coinvolta, fino all’elezione choc, nel 2016, del primo sindaco serbo della sua storia, Mladen Grujicic.
Recuperare il senso profondo di ciò che accadde a Srebrenica significa dare una chance in più di ripresa all’intera Bosnia Erzegovina, paese che ha un ruolo chiave nell’equilibrio geopolitico dell’intera area balcanica. In questo senso appare oltremodo evocativa la proposta avanzata da alcuni intellettuali di concedere a Srebrenica uno “statuto internazionale indipendente come patrimonio dell’umanità”.
E’ per questa ragione che la marcia dei “Testimoni”, così come le molte iniziative di questi giorni, va oltre il mero significato di testimonianza rituale, apparendo, al contrario, assolutamente attuale. Un atto simbolico, sì, ma quanto mai necessario. Senza perdere di vista la cosa più importante: anche quest’anno si riproporrà la cerimonia della sepoltura di coloro cui è stato possibile dare un nome dopo anni di studi e di analisi: saranno 35. Trentacinque ragioni in più per ricordare.