Sono passati nove mesi da quando, il 14 agosto 2017, il governo italiano annunciò la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con l’Egitto e otto mesi dal 14 settembre, quando il nuovo ambasciatore Giampaolo Cantini s’insediò al Cairo.
Si disse, all’epoca, che il ritorno dell’ambasciatore era dovuto ai passi avanti sul piano della collaborazione della magistratura egiziana nelle indagini sulla sparizione, la tortura e l’uccisione di Giulio Regeni e che proprio la presenza dell’ambasciatore ne avrebbe favoriti altri.
La prima affermazione era falsa, la seconda ancora tutta da realizzare. Via via, per le nostre istituzioni la ricerca della verità per Giulio Regeni – che milioni di italiani continuano a pretendere – è diventata più un fastidio che un interesse: qualcosa che occorre fare, in punta di piedi, sperando di non disturbare troppo quello che il ministro degli Esteri Alfano ha definito un “partner ineludibile” .
Se ogni tanto, come nell’entusiasta messaggio di felicitazioni del suo omologo Mattarella al presidente al-Sisi per la sua recente rielezione, viene pronunciato il nome di Giulio, si tace sul contesto nel quale Giulio è stato assassinato: le violazioni dei diritti umani, sempre più sistematiche e gravi.
Ricordiamo come le autorità egiziane anticiparono il “benvenuto” all’ambasciatore Cantini: facendo sparire per 48 ore il presidente dell’Associazione dei genitori degli scomparsi, Ibrahim Metwally, braccato mentre stava per salire a bordo di un aereo diretto a Ginevra, dove era stato invitato dalle Nazioni Unite a parlare delle sparizioni forzate. Metwally è tuttora in detenzione preventiva e rischia una condanna durissima per “terrorismo”.
“Nessuno deve più pagare per la nostra legittima richiesta di verità sulla scomparsa, le torture e l’uccisione di Giulio. Vi chiediamo di digiunare con noi, fino a quando Amal non sarà finalmente libera. Noi siamo la loro speranza” https://t.co/JwRexVj4X8 pic.twitter.com/mz0r0j1ME7
— Verità Per Giulio (@GiulioSiamoNoi) May 13, 2018
La stessa che rischia ora la nuova vittima del “benvenuto”, questa volta alla procura di Roma, che domani sarà al Cairo.
Amal Fathy, privata della libertà dalla notte tra il 10 e l’11 maggio, è accusata di “incitamento a rovesciare il regime egiziano”, “diffusione di voci false” e “uso abusivo dei social media”.
I “reati” sarebbero contenuti in un video che Amal ha postato su Facebook, 12 minuti di accuse alle autorità egiziane, incapaci di proteggere le donne dalle molestie sessuali. Amnesty International ha visto più volte il video e non vi ha trovato alcuna traccia di incitamento ad alcunché.
Va sottolineato che Amal Fathy è la moglie di Mohamed Lotfy, già ricercatore di Amnesty International e fondatore della Commissione egiziana per i diritti e la libertà, l’organizzazione per i diritti umani che fornisce consulenza legale alla famiglia Regeni e che per questo ha subito intimidazioni e arresti di suoi esponenti.
Ecco che di nuovo, come regolarmente successo negli ultimi due anni, gli attivisti e i difensori dei diritti umani che si occupano di Giulio e del contesto di cui è stato vittima vengono messi a tacere.
Il silenzio da parte delle istituzioni italiane è scandaloso. Per fortuna, ogni 14 del mese, a fare rumore sono i tanti giornalisti e attivisti della “scorta mediatica”.
Domani dunque i procuratori italiani torneranno al Cairo: ci ostiniamo, per amore di quella verità cui si deve arrivare, a non avere pregiudizi sull’operato della loro controparte. Pregiudizi no, ma scetticismo tanto.