In America del Sud è sempre la stessa storia. Cambiano i nomi, cambia il paese e cambiano le ragioni, ma ciò che rimane invariato è sempre lo stesso: gli indigeni non sono al sicuro. Gli interessi economici che caratterizzano il continente sono troppi: il processo di isolamento e annientamento perpetrato durante i secoli a loro discapito non può e non deve fermarsi. A chi afferma che generalizzare non sia mai completamente corretto, io rispondo che queste popolazioni sono l’eccezione alla regola. Ciò è talmente vero, che anche nei quattro criteri stilati dall’ONU è legalmente “indigeno” chi, tra le altre cose, ha “subito esperienza di marginalizzazione e espropriazione della terra attualmente o nel passato”.
Se proviamo a ragionare sulla relazione tra la situazione appena descritta e la cultura della violenza che caratterizza la maggioranza dei paesi dell’America Latina a tutti i livelli della società, il risultato è tanto ovvio quanto sconfortante. Bob Dylan cantava “the cavalry charged, the indians died” (la cavalleria caricava, gli indiani morivano), riferendosi a episodi avvenuti più di un secolo e mezzo fa; ebbene, la situazione è ancora la stessa. E’ facile: sostituiamo la cavalleria con le bande al soldo del governo e delle multinazionali, sostituiamo i nativi del Nord America con quelli dell’America Latina e il gioco è fatto.
Osservando la situazione da questo punto di vista, non mi sono stupito quando, leggendo le notizie, apprendiamo che Olivia Arevalo Lomas, donna 89 anni e leader della comunità indigena di Shipibo Konibo nella foresta Amazzonica peruviana, è stata uccisa a colpi di arma da fuoco mentre si trovava a casa sua. Testimoni hanno visto un uomo entrare nella sua abitazione e sparare numerosi colpi di pistola, scappando successivamente a bordo di una motocicletta. Olivia era un punto di riferimento per la sua comunità, si era da sempre distinta per la sua saggezza e per la sua lotta attiva a favore dei diritti di tutte le popolazioni indigene del Perù. L’omicidio rientra nel contesto di tensione che si respira nel paese per i progetti che le multinazionali (appoggiate dallo stato) hanno nei confronti della Foresta Amazzonica, che mettono a repentaglio la sicurezza e l’esistenza stessa degli autoctoni.
L’accanimento contro queste popolazioni si spiega se si guarda alla cosmologia che caratterizza la loro cultura e tradizione. Il legame che hanno sviluppato con la terra sulla quale vivono e con la natura intesa come immensa forza spirituale è tale per cui ogni “attentato” a quest’ultima è anche un attentato a loro stessi. Di conseguenza, la difesa delle risorse ambientali coincide con la salvaguardia della loro stessa esistenza. Questo tipo di concezione sfuma notevolmente (in molti casi sparisce totalmente) nella percezione occidentale del mondo. L’economia e la forza del denaro sono le ruote di un mulino che, per la maggior parte delle persone, è causa e fine ultimo dell’esistenza. Da questo punto di vista, lo sfruttamento della terra intesa come pura risorsa monetaria diventa un modo come un altro per placare questa eterna sete di denaro.
E’ un dato di fatto che, a causa delle motivazioni precedentemente spiegate, i nativi siano i primi a mettere i loro corpi tra uomo e natura. Purtroppo, sono anche i primi (e gli unici) a pagarne le conseguenze, non essendo tutelati in nessun modo né dal paese di origine né da nessun tipo di organizzazione sovranazionale.