Intervista a Vera Jarach. Ebrea italiana emigrata in Argentina, sopravvissuta prima alle leggi razziali del fascismo e poi alla dittatura militare: La storia si ripete perché ci sono interessi potenti che generano tragedie. «Oggi non c’è la paura di prima, ma molti silenzi complici»
di Claudio Tognonato
Vera Jarach Vigevani, ebrea italiana costretta e emigrare in Argentina per sfuggire alle leggi razziali del fascismo, tra qualche giorno compirà 90 anni. Ci dice di avere nella sua storia due genocidi: il nonno materno, Ettore Camerino è stato deportato ad Aushwitz, sua figlia Franca si presume sia stata gettata in mare nei voli della morte durante la dittatura (1976-1983) ed è ancora desaparecida. Madre di Plaza de Mayo, come è consuetudine è tornata recentemente in Italia per promuovere lo scambio tra studenti italiani e argentini. Sua figlia era una liceale di soli 18 anni quando venne rapita dai militari.
«Ora vorrebbero ridurre le pene a chi non lo merita. Questo colpisce chi di fronte alle atrocità subite dai desaparecidos ha atteso pazientemente di avere giustizia. E nessuno se l’è fatta con le proprie mani»
Vera è nata a Milano, ma a soli 11 anni è costretta ad emigrare in Argentina con i suoi genitori per fuggire alle leggi razziali del fascismo. Il resto della famiglia rimasta in Italia è scomparsa e come Franca non ha una tomba. Nel 2014, per la giornata della memoria, è stato realizzato il documentario I rumori della memoria, diretto da Marco Bechis in cui Vera ripercorre i luoghi della sua storia, da Buenos Aires ad Auschwitz.
Di passaggio a Roma, l’abbiamo incontrata poco prima del suo rientro in Argentina.
Anche quest’anno sei tornata in Italia per non far dimenticare la storia.
«Vengo in Italia in questo periodo dell’anno perché il 27 gennaio è la giornata della memoria, vengo a parlare in varie città e promuovo lo scambio tra il liceo Nacional de Buenos Aires, dove ha studiato mia figlia, e altri licei italiani. Questa volta però, c’è stato un evento particolare perché l’Università statale di Milano, che è la mia città di nascita, mi ha conferito la laurea honoris causa. Ma questa è stata una delle mie attività. È più di un mese che giro l’Italia».
Sono passati oramai 80 anni dalle leggi razziali.
«Sì, sono 80 anni e l’anno prossimo saranno pure 80 anni dalla piccola emigrazione degli ebrei italiani in Argentina. L’Istituto Italiano di cultura e varie università argentine, tra cui l’università di Tucumán, ricorderanno questa migrazione perché tra questi ci sono molti intellettuali e docenti di altissimo livello».
Puoi ricordare qualche nome di questi intellettuali?
«Certamente, posso fare il nome dei fratelli Terracini, Benvenuto e Alessandro, che insegnavano a Milano, uno era linguista, l’altro matematico, poi c’era Renato Treves che insegnava filosofia del diritto e sociologia a Urbino, Rodolfo Mondolfo che aveva la cattedra di storia della filosofia a Bologna, Eugenia Saerdoti Lustig, cugina di Rita Levi Montalcini e anche lei medico. Ci sono tanti altri come Mario Pugliese, Marcello Finzi, Leone Lattes, Renato Segre, solo per fare qualche nome di intellettuali che sono emigrati in Argentina. Un gruppo importante è arrivato a collaborare con l’università di Tucumán ritrovandosi con i repubblicani spagnoli, che erano anche emigrati per ragioni politiche».
La tua storia di vita raccoglie in una biografia due genocidi, si può dire che la memoria è per te è una ragione di vita?
«In Argentina dico sempre che sono militante della memoria, ma quando sono in Italia sostituisco la parola «militante», preferisco definirmi «una partigiana della memoria». Anni fa glielo dissi a Liliana Segre, e gli chiesi: “cosa mi sarebbe capitato se io non fosse emigrata in Argentina?” Lei mi disse che con ogni probabilità mi sarebbe successo quello che è capitato a lei, cioè Aushwitz. Non lo so, forse non sarei finita lì, magari sarei stata una partigiana per davvero, anche se in realtà allora ero solo una bambina».
Di cosa hai parlato nel tuo viaggio della memoria quest’anno?
«Parlo di cose diverse a seconda degli interlocutori: genocidi, persecuzioni ecc. ma questa volta ho parlato molto dell’attualità argentina che è molto preoccupante. In realtà è preoccupante tutta la situazione del mondo. Ci sono paesi dove la democrazia ha attraversato un lungo percorso e sembra che tutto proceda bene, ma in realtà non è così. È evidente che i poveri diventano più poveri e i ricchi più ricchi, mentre il potere si concentra sempre più in poche mani. I diversi contesti mondiali sembrano tutti molto simili. Negli ultimi due anni in Argentina questo modello economico e sociale ha provocato tanti licenziamenti e un numero considerevole di piccole e medie aziende hanno chiuso. Aziende che si sono trovate a dover concorrere con grandi multinazionali che producono i loro stessi prodotti».
Sembra un ritorno al passato, all’ultimo default del 2001 si era arrivati dopo l’abbassamento delle tariffe doganali e l’apertura indiscriminata alle importazioni di ogni bene.
Certo, questa storia io l’ho già vissuta: prima durante la dittatura militare e poi con il governo di Carlos Menem (1989-1999), purtroppo abbiamo già subito questo modello. La storia si ripete perché ci sono interessi molto potenti che generano poi tragedie, come durante la dittatura, interessi coperti dal silenzio, per paura, connivenza oppure per complicità. Ovviamente non c’è la paura che si respirava durante la dittatura, ma sono molti i silenzi complici».
Perché complicità o paura? Prendiamo il caso di Milagro Sala, la dirigente indigena da oltre due anni in carcere o agli arresti domiciliari senza che ci siano prove concrete contro di lei: quando è stata assolta in uno dei processi, sottovoce le è stato detto: «Non farti delle aspettative, ora sei stata assolta, ma abbiamo altre 50 cause che apriremo una dietro l’altra. Resterai per sempre in prigione».
«È una situazione terribile. È come se ci fosse una ostinazione verso ogni forma di opposizione, verso tutte le persone che hanno partecipato nell’ultimo decennio ai governi Kirchner. Un atteggiamento persecutorio, di odio, con Milagro Sala sicuramente, ma ci sono altri casi, per esempio l’inchiesta su Cristina Kirchner e Héctor Timerman, accusati di alto tradimento per i loro rapporti con l’Iran dopo l’attentato all’Amia (Associazione Mutuale Israelita, ndr), quando in realtà loro, in quanto presidente e ministro degli esteri volevano solo fare luce, avere notizie per capire il livello di coinvolgimento di quel paese nell’attentato che nel 1994 aveva fatto saltare un intero palazzo provocando centinaia di vittime. Sono accuse assurde, ma trovano ampia eco nella stampa e diventano notizia. Bisogna dire che in Argentina i media sono concentrati in poche mani con interessi molti vicini al governo di Mauricio Macri».
Sembrerebbe che nella regione non siano più necessari i colpi di Stato. Oggi si possono ottenere gli stessi risultati attraverso la magistratura, la stampa, il golpe economico, ecc.
«Quello che stai dicendo è molto grave e lo penso anch’io. Oggi ci sono altre «armi», ci sono altri mezzi per «disciplinare» un paese. In Argentina usano questo termine, «disciplinare», sono le nuove forme per imporre un ordine dall’alto, in modo meno evidente e sembra anche con buoni risultati. Manca sempre di più la possibilità di fare una vera opposizione perché i potenti cercano continuamente di generare disunione, di frammentare ogni forma di opposizione. Penso che accada anche qui in Italia, vincono le divergenze e quindi prevalgono i gruppi di potere».
In materia di diritti umani come procede il governo Macri?
«Noi vediamo che l’intenzione sarebbe quella di finire con i processi, di ridurre le pene ai condannati, di concedere il beneficio degli arresti domiciliari a soggetti che non lo meritano, con vari ergastoli e nuovi processi in corso. Tutto questo colpisce le nostre organizzazioni di diritti umani perché noi abbiamo pazientato molto per avere giustizia, negli anni, di fronte alle atrocità che hanno subito i desaparecidos. Nessuno si è fatto giustizia con le proprie mani».
Pensate che questo sia un primo passo verso un’amnistia generalizzata?
«Questo già lo dicono loro, ma in un’altra maniera: «Perché non perdonate, perché non vi riconciliate» ecc. ecc. Innanzitutto non possiamo assolutamente perdonare chi non ha chiesto mai perdono e in ogni modo prima ci deve essere giustizia vera, ma ancora ci sono molti processi in atto. Quello che mi tocca più da vicino è quello della Esma, un mega processo diviso in tre parti: le prime due sono arrivate a sentenza, manca la terza. La Eema è stato il principale campo di concentramento della dittatura da cui partivano i voli della morte, il governi precedenti lo hanno trasformato in Museo della Memoria. Oggi stiamo lavorando affinché questi edifici siano dichiarati dall’Unesco «patrimonio dell’umanità», c’è troppa sofferenza tra quelle mura perché vadano perse. Comunque io vedo con sempre più frequenza che le piazze tornano a riempirsi di persone che non vogliono perdere tutto ciò che avevano ottenuto. È difficile fare previsioni, ma io sono partigiana della memoria e sono ottimista».