Domenica 23 giugno 2013 First Line Press è stato presente alla Prima Festa Nazionale dell’Agricoltura Sociale, organizzata in un luogo dal forte carico simbolico e di conflitto: la Selva Lacandona – Fondo Amato Lamberti, 14 ettari di vigneto e pescheto confiscati alla camorra, il primo bene di questo tipo nel territorio del comune di Napoli. Siamo nel quartiere di Chiaiano (periferia nord-ovest), un’area la cui vocazione agricola (da secoli è rinomata soprattutto per la frutta che si produce, in primis le ciliegie) è stata negli anni tradita prima dalla speculazione edilizia e poi dalla piaga dei rifiuti.
Dal Fondo si può vedere la cava che ha ospitato la discarica, il sito che ha reso tristemente famosa Chiaiano a livello nazionale dal 2008 in poi. Ed è proprio da cinque anni a questa parte che qui va avanti un conflitto tra un’alleanza criminale che mette insieme la malavita, lo Stato e i grossi poteri economico-finanziari, da un lato, e dall’altro la popolazione del territorio (che si estende anche al quartiere di Scampia ed ai comuni di Marano e Mugnano) scelto per il sotterramento illegale, prima, e per lo stoccaggio “legale”, poi, di rifiuti.
A Chiaiano c’è stata la prova palese che “legalità” non è sinonimo di “giustizia”, meno ancora di giustizia sociale. Una discarica è stata imposta alla cittadinanza senza discussioni, anzi, con la presenza militare che mentre contrastava la popolazione comune chiudeva un occhio sulla permanenza (persino sui terreni del Fondo, confiscati nel 2000!) e sulle attività dei clan camorristici. Ma Chiaiano è anche un luogo di resistenza, di lotta per l’ambiente e per la salute, di una partecipazione dal basso che propone nuovi modelli di democrazia, e anche nuove istituzioni. I cittadini con il comitato anti-discarica non solo hanno istituito un presidio permanente, studiano e propongono nuovi modelli di sviluppo che partano dalla bonifica e dalla valorizzazione del territorio, ma sono riusciti in anni di attivismo ad ottenere anche un’importante vittoria: far sospendere definitivamente gli sversamenti nella “cava del Poligono”.
Non è un caso, quindi, che proprio in questo posto si discuta di (r)esistenze ambientali e beni comuni. Il workshop Presenti possibili: resistenze ambientali ed altri modelli di sviluppo ha proposto un interessante collegamento tra diverse esperienze di conflitti ambientali, diversi posti del mondo (dall’America Latina, agli Stati Uniti, al Gezi Park di Istanbul alla Campania), diverse tematiche e processi. Il tutto accomunato da un filo rosso: un sistema politico-economico-sociale che distribuisce in nome del “progresso” benessere a pochi e ingiustizie a molti, ma che è in crisi ed è messo in discussione da nuovi contesti di alternativa, che immaginano e mettono in pratica nuovi concetti, nuove azioni, nuovi processi.
First Line Press fedele ad uno dei suoi intenti, quello di essere uno spazio di dibattito e discussione sui conflitti e sul mondo, riassume in varie tappe gli spunti lanciati da quest’appuntamento, che riteniamo siano degni di nota e di diffusione e possano contribuire a riflettere, per disegnare un orizzonte diverso per il futuro del pianeta.
Il contributo al workshop di Marco Armiero, storico dell’ambiente del CNR e direttore dell’Environmental Humanities Lab del Royal Institute of Technology di Stoccolma, in collegamento telematico da Coimbra, è servito da stimolante apertura della discussione. Il ricercatore ha infatti tracciato in breve un percorso comune tra varie tematiche oggetto di conflitti (dall’ambiente, alle discriminazioni, alla salute, al lavoro, all’abitare, al sistema capitalista nel suo complesso), varie epoche storiche e varie latitudini.
Innanzitutto, per leggere le questioni di giustizia ambientale è suggerito utilizzare una lente bifocale, che guardi contemporaneamente sia al globale che al locale. Solo con questa visuale è possibile individuare collegamenti tra le differenti ingiustizie e le relative esperienze di lotta nel mondo. Solo così – in un paragone molto evocativo – la Selva Lacandona di Chiaiano può allargarsi al territorio originale del Chiapas (Messico) che porta questo nome, in cui nasce e si sviluppa l’esperienza zapatista; ma anche a piazza Taksim, alle strade del Brasile, alle città di Taranto e Brindisi, a Porto Marghera, a Bagnoli e a tutti i posti del globo dove si reagisce ad un processo che sta alla base del modello capitalista. Un processo che impone a larghe fette di esseri umani il sacrificio del diritto alla vita, alla salute, all’ambiente e ad un’esistenza dignitosa al fine di consentire un benessere che è a vantaggio, invece, di pochissimi, nonostante le pompose e “convincenti” narrazioni ci vogliano convincere che si tratti di un progresso diffuso e per tutti.
In tutti questi posti ci si è opposti ai suddetti processi, che hanno messo in gioco non solo l’ambiente, ma anche l’uguaglianza degli esseri umani, le modalità della produzione, i rapporti di lavoro, di classe, di genere e di “razza” grazie all’azione di persone che hanno messo in moto conflitti. E che hanno prodotto un patrimonio di relazioni e di connessioni forti, di partecipazione dal basso, di democrazia reale, di narrazioni al contempo vecchie e nuove, di condivisione dei saperi e delle pratiche. Creando, al tempo stesso, nuovi contesti e logiche decisionali, nuove categorie, e nuove istituzioni che costituiscono qualcosa d’”altro” rispetto agli Stati-nazione attuali.
Un patrimonio che va condiviso e in qualche modo unificato, rintracciando gli elementi comuni per proporre un’alternativa realmente globale. Che concepisca la “giustizia ambientale” come messaggio politico a 360 gradi, e non mera categoria della giurisprudenza.
Alcuni esempi, che Armiero trae dalla storia del movimento per la giustizia ambientale in varie parti del mondo, possono farci capire come, in realtà, a varie coordinate geografiche si portino avanti lo stesso tipo di battaglie.
Prendiamo New Orleans, devastata nel 2005 dall’uragano Katrina, un evento naturale “estremo” legato ai cambiamenti climatici globali. In quel caso, lo Stato ha lasciato ai singoli cittadini il proprio “salvataggio” e la propria “tutela”, permettendo che l’individualismo figlio di logiche sociali e di mercato si scatenasse indisturbato, acuendo i conflitti tra le varie fasce della popolazione, le etnie, i generi. Il piano di ricostruzione della città post-uragano ha messo in atto processi di gentrificazione, che vedono i quartieri poveri rasi al suolo per far spazio a residenze per popolazioni di fasce medio-alte, spingendo i più deboli fuori dal contesto urbano. Un grande movimento popolare si è opposto a queste dinamiche con nuove pratiche e con la valorizzazione delle relazioni. Restando sempre negli Stati Uniti, un altro luogo simbolo è la Cancer Alley della Louisiana, il “corridoio del cancro” in cui la produzione delle industrie petrolchimiche genera tassi di morti per tumore altissimi. Come all’Ilva di Taranto, nelle vecchie fabbriche Eternit e in tanti altri contesti, il salario lì è guadagnato a spese della salute. Ma ancora una volta la popolazione, prevalentemente operaia, si è ribellata per rivendicare la coesistenza di lavoro e salute. Terzo luogo simbolo è la piazza Taksim di Istanbul, dove tutta una serie di rivendicazioni per la democrazia reale, contro la repressione e per i diritti umani sono partite, non per caso, dalla difesa di un parco cittadino destinato a scomparire per far posto ad un centro commerciale. Anche lì i cittadini si sono opposti ad un modello di sviluppo che li trasforma in meri consumatori e le relazioni in merci, riappropriandosi collettivamente di uno spazio, occupandolo e concependolo come un bene comune, che non è possibile espropriare a vantaggio di interessi privati.
Soprattutto in un periodo di crisi economica, è necessario – propone Armiero – estendere questi momenti di costruzione di nuovi commons e nuove esperienze di partecipazione, partendo da conflitti reali, soprattutto all’interno delle città e delle metropoli, cuore delle contraddizioni del sistema in cui viviamo. La Selva Lacandona e le lotte di Chiaiano, nel contesto urbano napoletano, rappresentano in qualche modo proprio questo. È importante, prendendo in prestito le parole della poetessa Leanne Betasamosake Simpson, tra le protagoniste del movimento di lotta delle comunità native canadesi Idle No More (e non solo le tesi di politologi ed economisti), far leva sull’accumulo di relazioni e reti sociali, più che sui beni. Non limitandosi solo a “salvare” e a “difendere” un posto, ma inventando nuovi commons, sfondando limiti e “recinzioni”, riprendendosi tutto ciò che è stato ingiustamente sottratto e gestendolo insieme.
La seconda parte del Focus, che tratterà più nello specifico di riappropriazione e beni comuni in relazione alla Costituzione italiana, vi aspetta la prossima settimana su queste pagine.
Domenico Musella