Duri scontri hanno provocato almeno 27 morti a Lukqun, un sobborgo di Turfan, città della provincia nord-occidentale cinese dello Xinjiang. Secondo i media ufficiali cinesi, stamattina le forze dell’ordine sarebbero intervenute sparando contro una folla armata di coltelli che aveva attaccato un posto di polizia e un edificio governativo, ferendo alcune persone e incendiando automezzi pubblici. Le vittime sarebbero dieci assalitori, otto civili e nove membri delle forze di sicurezza. Altre tre persone sarebbero ricoverate in ospedale. Le fonti cinesi non indicano le ragioni degli scontri o l’etnia dei “rivoltosi”, limitandosi anche questa volta – come pure nell’ultimo grave episodio di violenza dello scorso aprile, quando in scontri tra polizia e manifestanti morirono 21 persone – a parlare di “terroristi”.
Per i fatti di aprile, nove persone sono state condannate a pene detentive per “estremismo religioso”. Una terminologia che identifica abitualmente l’appartenenza all’etnia uighura di fede islamica, maggioritaria sebbene di poco nella provincia – che confina con paesi musulmani – con nove milioni di abitanti.
Da decenni un movimento indipendentista, che ha la sua massima espressione politica nel Congresso mondiale uighuro, è in lotta per ottenere la separazione di questa vasta regione turcofona e di tradizione musulmana dalla Repubblica popolare cinese. Il Congresso è guidato dalla signora Rebiya Kadir, in esilio negli Usa, la più attiva espressione militante nel Movimento per la liberazione del Turkestan orientale, che lamenta persecuzioni e abusi, oltre che la perdita di identità incoraggiata dalle autorità tramite la massiccia immigrazione di cinesi di etnia Han nella provincia dello Xinjiang.
La maggiore rivolta dall’annessione cinese nel 1949 dell’autoproclamato Turkestan orientale si è registrata nel luglio 2009: quasi 200 persone, in maggioranza Han, rimasero uccise in scontri interetnici che durarano settimane, con la partecipazione della polizia.