La questione mineraria del Congo è di nuovo alla ribalta. Questa volta i riflettori sono stati accesi dalla Borsa dei metalli di Londra che ha chiesto a tutte le società minerarie presenti al suo interno di dimostrare l’eticità dei loro prodotti. Una richiesta non proprio motivata da ragioni morali, ma dalla denuncia di alcuni operatori che accusano alcune società cinesi, fra cui la Yantai Cash Industrial, di concorrenza sleale proprio a causa del fatto che ottengono materie prime dal Congo a prezzi bassissimi in forza dell’alto grado di sfruttamento del lavoro e della violazione delle leggi fiscali e doganali.
In Congo l’etica è una parola dimenticata da tempo, sicuramente dal 1890 quando divenne colonia belga, all’inizio per produrre gomma, poi per fornire minerali. All’indomani dalla liberazione, Lumumba ci provò a togliere le miniere di mano alle compagnie straniere per metterle al servizio del popolo congolese, ma venne assassinato brutalmente.
Mobutu, che gli succedette, gestì le ricchezze minerarie del Congo secondo un accordo di spartizione con le imprese straniere e in 35 anni di dittatura, accumulò all’estero 8 miliardi di dollari, mentre il popolo congolese si dibatteva nella fame e nella miseria. Nel 1997 il potere venne rilevato da una nuova dinastia, quella di Kabila, che però ereditò un paese a pezzi. Una condizione di debolezza che nel Kivu, la parte orientale del paese, favorì la proliferazione di movimenti secessionisti che risentivano delle tensioni etniche esistenti in Ruanda e Burundi. Nel 1998 il Kivu si trasformò in un campo di battaglia che vide la presenza di sei eserciti stranieri, parte a sostegno di Kabila, parte a sostegno dei gruppi etnici locali, parte a sostegno di se stessi solo per avere accesso ai giacimenti di oro, zinco, tantalio, tungsteno, di cui la zona è ricca e che sono di fondamentale importanza per l’industria informatica. In effetti vari generali ruandesi e ugandesi approfittarono della presenza armata in Kivu per appropriarsi dei minerali ed arricchirsi vendendoli sul mercato nero internazionale. Operazione resa possibile dal fatto che gran parte dell’estrazione è su base artigianale. Si calcola che nel Kivu ci siano 400.000 minatori imprenditori di se stessi che grattano il terreno alla ricerca di pietre grezze che contengono minerali preziosi. Durante la guerra erano obbligati a cedere i loro prodotti ai signori della guerra per prezzi irrisori. E se ufficialmente gli eserciti stranieri si sono ritirati dal Kivu a fine 2002, l’ultimo rapporto presentato alle Nazioni Unite nell’agosto 2017, testimonia che nella zona operano ancora vari gruppi armati che continuano a controllare l’estrazione e la vendita dei minerali per finanziare, col ricavato, l’acquisto di armi.
Tuttavia il minerale che ha indotto la direzione della Borsa di Londra ad avviare la sua indagine di eticità, non è né il tantalio, né il tungsteno, ma il cobalto, un minerale che sta assumendo un’importanza crescente come componente per batterie, dal momento che il futuro dell’industria automobilistica è nell’auto elettrica. Il Congo contribuisce a metà del cobalto mondiale, soprattutto nella regione del Katanga, attraverso una varietà di attori che comprendono potenti multinazionali, dotate delle più moderne tecnologie, e un esercito di minatori, imprenditori di se stessi, che grattano il terreno con ferri e picconi. Vari reportages hanno documentato condizioni di lavoro indegne fra loro, oltre alla presenza di lavoro minorile e ogni sorta di angheria subita da parte dei grossisti, in gran parte cinesi. Di tutti questi aspetti, quello che più inquieta la Borsa di Londra è la presenza di lavoro minorile perché urta la sensibilità collettiva. E come rimedio pensa di chiedere alle imprese che trasformano il minerale grezzo in metallo, di autocertificare, davanti all’opinione pubblica, l’uso di materie prime che escludono il lavoro minorile. Ma questo genere di operazioni salva l’immagine delle imprese, non l’avvenire dei bambini. Il lavoro minorile non si combatte con le dichiarazioni, ma eliminando la povertà. I genitori poveri non vogliono ai loro figli meno bene dei ricchi. Le famiglie mandano i figli al lavoro quando i soldi non bastano e quando non c’è scuola. Allora se vogliamo eliminare il lavoro minorile, è dai salari degli adulti che dobbiamo partire. Più precisamente ci vuole un’operazione a tenaglia: da una parte la disponibilità delle imprese a riconoscere salari più alti ai propri lavoratori e a pagare prezzi più alti sui prodotti acquistati dai lavoratori autonomi; dall’altra la disponibilità da parte degli stati ricchi ad assistere quelli poveri con mezzi e personale affinché i bambini di ogni parte del mondo possano trovare una scuola che li accoglie. Non più lacrime di coccodrillo, ma scelte di giustizia, così si costruisce un mondo migliore.
Pubblicato su Avvenire il 29 Dicembre