Nel continente africano, oltre 600 milioni di persone vivono ancora senza accesso alla corrente elettrica e 3,5 milioni muoiono per aver inalato combustibili tossici o fumi di fornelli casalinghi nel tentativo di scaldare le proprie case. Che l’accesso a sorgenti di energia alternative sia uno degli obiettivi chiave per incrementare la qualità della vita a livello mondiale non lo dicono solo le Nazioni Unite, incoraggiando lo sviluppo e l’applicazione di nuove forme sostenibili di rigenerazione delle risorse. A sostenerlo è anche Akon. Sì, avete capito, lui, il rapper, uomo d’affari, produttore discografico e attore di fama mondiale, con radici in Senegal e rami e foglie negli States.
La sua storia personale non è certo delle più immacolate, un’altalena che oscilla tra contrastate vicende familiari e fondazioni di beneficienza (come la Konfidence Foundation), miniere di diamanti in Sud Africa e donazioni alle comunità locali, guai con la giustizia dai torbidi contorni e discutibili scene da palcoscenico, dal quale però regala anche momenti strappalacrime con canzoni di espiazione come Blame it on me. Insomma, un uomo ricco, complicato e famoso, di certo una combinazione di caratteristiche che inviterebbero a tenersene alla larga invece che a scriverne un articolo che, nella stessa pagina, contenga parole come sostenibilità e impegno per il futuro della Terra e di chi la abita.
E invece. Invece è bene sospendere il giudizio sulle possibilità di imparare anche da chi sbaglia, sull’opportunità di condividere preoccupazioni comuni anche con chi nella vita quotidiana, per possibilità e scelte, è molto lontano da noi.
L’iniziativa di Akon, condivisa con l’attivista senegalese Thione Niang e l’imprenditore del Mali Samba Bathily, è nata a fine 2015 nella convinzione che, come discusso con The Guardian e per dirla mutuando le parole di Dambisa Moyo, “la carità uccida”: “penso che [la carità] limiti le persone più di quanto dovrebbe. Penso che l’unico modo per costruire l’Africa sia creare imprese profit, che offrano opportunità di lavoro a livello locale”. Sulla base di quale presupposto? Che le comunità locali non abbiano bisogno della beneficienza d’Oltreoceano (li chiamiamo aiuti allo sviluppo?) ma di energie rinnovabili derivanti da impianti – e quindi anche da professionalità – nati e formati direttamente sul suolo africano, all’interno di realtà profit che possano garantire stabilità e auto-sostentamento alle economie locali. Un progetto che al momento della sua nascita aveva l’ambizioso obiettivo di gettare le basi di un risorgimento energetico africano, che diventasse focale per un’industria solare a livello globale. Avevano ragione?
Certo, il tempo trascorso non è molto per poterne già valutare le ricadute sul lungo periodo, ma si può dire che la direzione sembra quella giusta, sia per le indicazioni a livello internazionale fornite dall’Agenda Globale 2030, sia per i risultati ottenuti ad oggi dalla Akon Lighting Africa (e sorvoliamo per questa volta sull’immodestia del nome): in più di un anno sono state installate in oltre 14 paesi diversi tipi di soluzioni a energia solare, dai lampioni per le strade ai kit di lampade domestiche e questo grazie a uno sforzo combinato tra pubblico e privato che include partner come Solektra Int., Sumec e Nari.
Grazie a questo progetto case, villaggi e comunità, scuole e centri di salute situati in aree rurali hanno potuto godere finalmente e per la prima volta di una connessione alla corrente elettrica. Un miglioramento che ha permesso anche la creazione di posti di lavoro, le cui ricadute hanno certamente coinvolto i giovani delle comunità locali nell’installazione e nel mantenimento dei pannelli solari, ma hanno anche permesso a loro e alle loro famiglie gesti semplici e per noi scontati come ad esempio ricaricare il proprio cellulare a casa senza dover camminare per ore per poterlo fare a pagamento.
Risultati che riflettono le intenzioni dei fondatori: assicurare soluzioni concrete e pratiche alla popolazione locale per contribuire alla risoluzione della questione energetica in Africa. Anche se l’ambizione è onestamente quella di risolverlo direttamente, il problema. Volano alto? Forse, ma di certo evidenziano alcune gravi difficoltà di un certo tipo di cooperazione internazionale ancora molto diffusa, a partire dalle grandi e macchinose organizzazioni, religiose o laiche, che risucchiate dalla burocrazia impiegano anni prima di raggiungere obiettivi anche molto semplici.
“Una delle cose che ho capito dell’Africa è che solo le organizzazioni che coinvolgono africani possono avere successo. Molte delle imprese che arrivano con le loro policies e provano a implementarle in Africa falliscono. Il nostro vantaggio è che tutti e tre [Akon, Niang, Bathily, nda] siamo africani, e quindi siamo stati in grado di muoverci molto più rapidamente conoscendo le dinamiche di base”.
In effetti, soprattutto per chi si occupa di solidarietà internazionale a livelli diversi, coinvolgendo le comunità nei progetti dalle fasi di brain storming fino a quelle di valutazione, questa affermazione di Akon può suscitare qualche perplessità in relazione alle “generalizzazioni africane” o alle dinamiche che potrebbero non essere sempre quelle che ci aspettiamo. Ma è anche vero che, pur senza nessun intento demonizzante, molte realtà che si muovono sul continente africano adottano strategie comparabili a volte al bendare con una garza un’arteria in emorragia.
Insomma, il dibattito resta aperto e in qualunque contesto si intavoli il discorso le questioni non sono esenti da problematizzazioni e contraddizioni. Una domanda però potremmo quantomeno porcela: gli artisti ottengono risultati lì dove invece altri profili e competenze non riescono? Forse.
Anna Molinari