Cosa sta succedendo in Turchia e cosa c’è dietro le proteste dei giorni scorsi
Con un po’ di fatica sono arrivate anche in Italia le notizie sugli scontri e le proteste avvenute in Turchia nei giorni scorsi. Grazie ai social network e al giornalismo partecipativo di cui sono stati protagonisti i giovani turchi, è stata superata la “censura” da parte dei principali media e abbiamo appreso le difficoltà di un paese che si è distinto in Medio Oriente, dal XX secolo in poi, per essere una democrazia matura ed equilibrata. Un paese che sembra non aver conosciuto la crisi e che, contrariamente ai vicini europei, ha vissuto negli ultimi anni una crescita esponenziale. Questo è in realtà un benessere apparente che nasconde un grande malcontento generale legato soprattutto all’operato dell’attuale primo ministro turco. Recep Tayyip Erdogan da 11 anni sta conducendo la Turchia verso un ritorno alle tradizioni, trasformandola in uno stato conservatore in cui la religione assume un ruolo centrale nella vita pubblica e privata.
Questa visione si allontana nettamente da quello stato moderno e occidentalizzato, laico e liberale che ha abbracciato per 80 anni l’ideologia kemalista. A causa di questi forti contrasti tra ciò che appare agli occhi dell’Occidente e le reali dinamiche interne, in poco tempo le proteste contro l’abbattimento degli alberi a Gezi Park si sono trasformate in proteste contro la politica di re-islamizzazione del paese attuata da Erdogan.
La Turchia, e nello specifico l’Impero Ottomano, è stato per circa 400 anni (dal XVI al XVIII secolo) la più grande superpotenza occidentale, che si estendeva dai confini meridionali del Sacro Romano Impero, alle periferie di Vienna e della Polonia da nord fino allo Yemen e l’Eritrea a sud; dall’Algeria ad ovest fino all’Azerbaigian ad est, controllando gran parte dei Balcani, del Vicino Oriente e del Nordafrica. Uno degli imperi più potenti e duraturi della storia, un impero multinazionale e plurilingue che fu al centro dei rapporti tra Oriente ed Occidente per circa sei secoli soprattutto grazie al controllo delle rotte commerciali tra l’Europa e l’Asia. Era una potenza estremamente forte e per molti secoli è stato “il nemico” per eccellenza dell’Europa.Tuttavia nel Settecento le cose cambiarono e l’Impero conobbe quello che sarebbe stato il suo declino. Nel XIX secolo visse anni di continua umiliazione perdendo in poco tempo l’Algeria, la Tunisia, gran parte dei Balcani e la Libia (conquistata dall’Italia). La Turchia era a quel punto considerata “il malato d’Europa”, una paese che si sgretolava su se stesso, incapace di reggersi in piedi. Durante la prima guerra mondiale l’Impero si alleò con gli Imperi Centrali insieme ai quali subì la dura sconfitta.
Dopo la sconfitta nella guerra, l’Impero subì l’occupazione straniera della Grecia, che prese la zona di Smirne, e degli eserciti inglese, italiano e francese che avevano in mano le regioni costiere. Il movimento di indipendenza della Turchia fu presidiato da un generale dell’esercito ottomano, Mustafà Kemal Pascià, detto in seguito Atatürk (padre dei Turchi), che aveva anche partecipato alla rivoluzione dei “Giovani Turchi”. Nella guerra greco-turca del 1919-1922, inglesi, italiani e francesi si ritirarono, e i Greci furono sconfitti e costretti a lasciare Smirne.
Nel novembre del 1922 fu abolito il Sultanato e nel 1923 fu proclamata la Repubblica Turca, di cui Atatürk fu il primo presidente. Oltre ad abolire il califfato e a laicizzare lo stato, egli istituì il suffragio universale, adottò l’alfabeto latino e il calendario gregoriano. Allo stesso tempo però mantenne l’Islam come religione di stato per non turbare troppo la popolazione più religiosa. Atatürk credeva, come gli altri nazionalisti, che il declino della Turchia fosse stato causato dalla sua arretratezza e che l’unico modo per rialzarsi fosse seguire lo stesso percorso dei paesi occidentali, abbracciando positivamente tutto ciò che era occidentale ed europeo e abbandonando tutto ciò che era legato all’Islam, al multiculturalismo e alle tradizioni antiche, che ricordavano il fallimento. Creando uno stato laico, secolare, con una sola lingua e una sola cultura (eliminando il multiculturalismo anche attraverso la persecuzione e lo sterminio delle minoranze curde, armene e greche), voleva instaurare le premesse per uno stato forte e riportare la Turchia tra le grandi potenze mondiali.
La storia moderna e contemporanea ha visto un alternarsi di disordini, attentati, repressioni e colpi di stato, ma una cosa rimaneva invariata: l’esercito era il garante dello stato laico istituito da Atatürk. Alle elezioni politiche del 2002 sale al governo il partito dell’Akp (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), un partito islamico definito da molti “moderato” con a capo l’attuale primo ministro Recep Tayyip Erdogan. Invece le politiche di questo partito si sono distinte fin da subito per il loro essere tutt’altro che moderate e troppo spesso rivoluzionarie per un paese laico come la Turchia. Negli ultimi anni e mesi queste politiche re-islamizzanti si sono intensificate sempre di più: nel 2008 Erdogan ha abrogato la legge che vietava ai dipendenti pubblici di vestire abiti che fossero simboli religiosi (legge derivante dalla politica kemalista di Atatürk), come il velo per le donne e l’uso del fez e del turbante per gli uomini. Negli ultimi mesi sono state approvate leggi che vietano il consumo di alcol per le strade e le effusioni in luoghi pubblici.
Le proteste partite da Piazza Taksim hanno a che fare con tutto questo e con il fatto che sotto un apparente benessere il paese sta vivendo da dieci anni un forte disagio e una grande scontentezza. Le proteste dei giorni scorsi non sono solamente “la rivolta degli alberi”, ma una rivolta per la libertà di espressione, per lo stato secolarizzato e contro il neo-ottomanesimo di Erdogan. I media stranieri amano definire “neo-ottomano” il governo attuale in riferimento alle trasformazioni avvenute del XXI secolo, in particolare in riferimento alla politica estera di Erdogan sempre più assertiva. Tuttavia al di là della politica estera si sta vivendo anche una significativa trasformazione interna, una “grande restaurazione” come l’ha definita il premier turco, in cui c’è la necessità “di abbracciare pienamente i valori antichi che sono andati persi”.
Così lodando il passato si è iniziato a credere che anche la strada per il progresso della Turchia fosse nel suo passato. Questa ideologia è entrata a far parte anche della cultura popolare che ha in qualche modo abolito tutto ciò che era multiculturale e quella “nostalgia ottomana” si può ritrovare oggi nella vita di tutti i giorni in Turchia. Basti pensare che la fiction televisiva più popolare è Il secolo magnifico (Muhtesem Yüzyil), basata sulla vita di Solimano il Magnifico (sultano e califfo che portò l’Impero Ottomano al massimo splendore) e che il film che ha fatto maggiori incassi negli ultimi anni è Fetih 1453 (La Conquista, 2012), una pellicola che racconta la storia della cattura di Costantinopoli (poi Istanbul) da parte dei turchi ottomani durante il regno del Sultano Mehmed II. Altri esempi di marchio ottomano si possono trovare nel nuovo design delle uniformi della Turkish Airlines, caratterizzati dai fez per gli steward e abiti particolarmente castigati per le hostess. Tutto ciò, oltre che a sfilate di moda di ispirazione ottomana, mostre d’arte, seminari universitari, ha portato, secondo il giornalista e scrittore turco Cinar Kiper, “alla ricostruzione di un marchio dimenticato quasi un secolo fa” e ha fatto guadagnare al primo ministro l’appellativo di Sultano Erdogan.
Per Kiper, nonostante quello che i critici, gli oppositori e gli osservatori esterni possono supporre, Erdogan non cerca un ritorno alla Turchia pre-rivoluzionaria, ma una restraurazione, un periodo illuminato (simile al periodo Meiji per il Giappone), non un ottomanismo romantico, bensì una riappropriazione della rivoluzione repubblicana ridefinendo la sua essenza, mescolando l’innovazione dell’Occidente con la cultura locale, le tradizioni e i legami storici, vale a dire “tecnica occidentale, spirito ottomano”. Fu proprio Erdogan, in un’intervista al Time nel 2011, a dichiarare: “è un diritto naturale per noi utilizzare le bellezze dell’Impero Ottomano. Oggi però abbiamo bisogno di aggiornarci in tutti i sensi: socialmente, economicamente e politicamente”. Una restaurazione dunque, ma interpretata con un nuovo approccio politico che è a metà tra l’antichità ottomana e l’epoca della globalizzazione. Una restaurazione che contrasta con le riforme kemaliste che è molto di più di una semplice “ottomania” (come la definiscono in molti), è una politica che vuole rilanciare la Turchia e renderla qualcosa di più che una copia dell’Occidente, come è stata considerata per decenni.
Il problema è che questa restaurazione diventa una vera e propria repressione quando si tratta di libertà laica di espressione, una dura repressione contro il popolo che non appoggia le decisioni del governo. La guerriglia urbana che ha infiammato più di 90 città tuche nei giorni scorsi (causando due morti, mille feriti – molti rimasti ciechi a causa dei gas – e mille arresti) è partita come la “rivolta degli alberi” da parte di un gruppo di ambientalisti, ma è degenerata proprio in seguito alla risposta del governo alla manifestazione pacifica di Gezi Park. Si è trasformata in una battaglia culturale e di civiltà e proprio dal pugno di ferro del governo si è partiti per contestare tutta una serie di politiche che i giovani (e non solo) turchi non approvano. Le motivazioni degli scontri sono proprio culturali e civili e non economiche (al contrario dei paesi del Nord Africa che hanno vissuto le “primavere arabe” negli ultimi tre anni). Non si può parlare dunque di “primavera turca” perché la Turchia ha raggiunto una sostanziale crescita economica da quando Erdogan è al governo, ma sono proprio le sue politiche di privatizzazione, proibizionismo e conservatorismo a livello culturale e sociale che i turchi non approvano. Dopo 80 anni vissuti come uno stato occidentalizzato e moderno, laico e liberale, la Turchia non sembra abbracciare i tentativi si recuperare quell’identità islamica in politica e nella vita sociale e se Erdogan non sarà in grado di recepire questo messaggio le proteste non cesseranno.