Condannati in primo grado, Ante Gotovina, ex comandante dell’esercito croato durante la guerra di secessione della Croazia, a 24 anni, e Mladen Markac, ex capo della polizia croata, a 18 anni, per i crimini di guerra e le condotte efferate durante le operazioni di strage e di pulizia etnica, soprattutto ai danni dei serbo-croati, tra il 1991 ed il 1995, sono entrambi usciti assolti in appello dal Tribunale Penale Internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia nello scorso novembre. Entrambi sono storicamente ritenuti tra i principali responsabili, insieme con l’ex Capo di Stato, l’iper-nazionalista Franjo Tudjiman, della pulizia etnica nella Krajina, regione croata a maggioranza serba, proclamatasi indipendente nel ’91 e ripresa con le armi dai croati con l’Operazione Tempesta nel ’95.
Incriminato con pesanti accuse di strage, violenza e crimini di guerra durante i mesi bui della guerra in Kosovo del terrorismo separatista dell’UCK, già nella black list del Dipartimento di Stato USA fino a quasi tutto il 1998 (giusto in tempo per l’inizio dell’aggressione USA e NATO contro la Serbia, marzo 1999), Ramush Haradinaj, ex leader dell’UCK e ora presidente di una delle formazioni iper-nazionaliste della galassia politica kosovara, il Partito AAK (Alleanza per il Futuro del Kosovo), è stato assolto anch’egli nel novembre scorso, dopo che, per la prima volta nella sua storia, il Tribunale Penale Internazionale ad hoc aveva perfino disposto la replica del processo in prima istanza a causa delle intimidazioni subite da alcuni testimoni, tali da alterare lo svolgimento del processo.
Sorte analoga per i due co-imputati di Ramush Haradinaj, Idriz Balaj, ex comandante speciale delle famigerate milizie delle “Aquile Nere”, e Lahi Brahimaj, un altro ex comandante dell’UCK, in primo grado condannato a sei anni, ampiamente riconosciuto colpevole di tortura, infine assolto. La motivazione, in questi ultimi casi, lascia quasi di stucco: «La Corte non è convinta che il testimone si trovasse al centro di Jablanica (il luogo dei crimini): il testimone potrebbe aver ripetuto quello che ha sentito dire da altre persone». Il tutto, “a prescindere” dal fatto che tali massacri e tali torture siano stati effettivamente commessi: oppositori e collaborazionisti venivano uccisi, maltrattati e torturati a Jablanica (presso Prizren), venivano frequentemente stilate liste nere ed era ampiamente praticata la tortura, aveva indicato nella sua relazione il procuratore Paul Rogers presso il Tribunale.
Le “Aquile Nere” erano la famigerata milizia, una vera e propria “squadra della morte”, all’interno dell’UCK, l’Armata di Liberazione del Kosovo, attiva soprattutto nella zona di Dukagjini e nella Drenica, responsabile di eccidi e torture. Oltre che portatrice di un piano, ufficialmente, di “liberazione del Kosovo”, nei fatti, di vera e propria pulizia etnica della regione. Nella celebre testimonianza, riportata a suo tempo dal Corriere della Sera (11 maggio 1999), si possono leggere passaggi del tipo: «Gli chiedo che cosa pensa del “piano di pace”. Dice: “Del disarmo dell’UCK? Questa non è la vostra guerra, questa è la nostra guerra. L’abbiamo iniziata da soli. Ora che la NATO ha voluto finalmente capire il gioco di Milosevic, siamo felici di essere in buona compagnia. Ma non sarà la NATO a dirci quando smettere. Smetteremo quando avremo raggiunto il nostro obiettivo, il Kosovo albanese”».
Per chi l’ha visto e per chi ne ha letto, il ponte di Mostar è un vero e proprio simbolo: simbolo dell’incontro dei popoli e delle culture e, proprio per questa sua vocazione, teatro della guerra croato-bosniaca nella guerra di Bosnia, quando, nel 1993, venne ripetutamente colpito e infine distrutto. Il ponte era stato costruito tra il 1557 e il 1566 su richiesta dei residenti di Mostar ad opera del sultano Solimano il Magnifico, grazie alla perizia del maestro Mimar Hayruddin. Solo ultima in ordine di tempo, tra le varie scandalose sentenze del Tribunale Penale ad hoc, quella del maggio scorso dichiara la distruzione del Ponte di Mostar non reato in quanto «legittimo obiettivo militare».
Avviato nell’ambito della attuale 67a sessione ordinaria della Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il dibattito internazionale di alto livello in ordine al ruolo dei Tribunali ad hoc nel superare il conflitto e promuovere la riconciliazione, in particolare nei Balcani, ha svolto una “igienica” e “salutare” funzione di analisi e di confronto in merito al profilo e al carattere, ma anche al ruolo e alle finalità, di tali organismi giudiziari speciali, molto controversi e “ai limiti” della giustizia e del diritto internazionale. Nel corso delle prossime settimane sarà presentato il documento conclusivo, in cui saranno riportati tutti i punti di vista dei paesi membri emersi in occasione del dibattito e quindi anche la posizione ufficiale delle Nazioni Unite. Ma intanto, il presidente di turno dell’Assemblea Generale, l’ex ministro degli esteri serbo, Vuk Jeremic, non ha mancato di fare sentire la sua voce, a margine della visita istituzionale a Roma (lo scorso 3 giugno): “A guardare bene i risentimenti e l’atmosfera che si respirano oggi nei Balcani, non sono convinto che le cose siano migliorate. […] Il Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia ha fallito nel suo obiettivo di perseguire la riconciliazione tra i popoli”. Un vero e proprio requiem per il TPJ.