Il governo di Angela Merkel si trova in dichiarata debacle da tempo, l’ accordo di qualche mese fa con le compagnie elettriche per allungare i tempi di utilizzo delle centrali nucleari, non è andato giù al popolo tedesco.
Dopo che Fukishima ha posto in evidenza i pericoli dell’energia atomica i tedeschi sono scesi in piazza, con il governo cerca di pilotare questa bufera.
“Se non sai cosa fare, crea una commissione” ironizza il quotidiano Hamburger Abendblatt, al quale la Merkel ha risposto creandone due: una etica, cercando di trovare una via d’uscita senza contrattempi dal nucleare entro il 2020 e un’altra per la valutazione delle centrali in funzione, i cui membri hanno già affermato che il termine proposto di tre mesi non è sufficiente e che in realtà sono necessari due anni per poter fare verifiche serie. Due anni con le centrali ferme? Impossibile, secondo le compagnie elettriche, che minacciano di non pagare le tasse per i reattori non operativi.
Si è anche aperto un conflitto con la Francia a causa della centrale di Cattenom, 25 kim dalla frontiera tedesca, dove in 25 anni di storia si sono verificati 750 incidenti dichiarati. Il governo francese intende mantenerla in funzione fino al 2050, ciò che causa il rifiuto da parte della Germania e potrebbe provocare addirittura un cambiamento del segno politico della regione di Sarre, guidata dal 1952 proprio dal CDU, il partito della Merkel.
“ Verdi e socialdemocratici chiamano a trasformare le elezioni di Baden-Württemberg di domenica prossima in un plebiscito sul futuro del nucleare, commenta Rafael Poch sul “La Vanguardia”.
La Germania, che si rifornisce di energia russa, non aveva bisogno di unirsi all’attacco contro Gheddafi. Il governo inglese e quello francese devono far fronte agli accordi firmati con il dittatore e non pregiudicare la stabilità delle compagnie BP e Total. La compagnia inglese ha fatto investimenti per più di un milione di sterline e sa che può trarre più vantaggi da un governo libico dipendente e gradito con l’impegno militare dell’Armata Britannica.
E’ curioso come un paese in bancarotta possa imbarcarsi in una guerra solo per proteggere il business petrolifero; è la chiara dimostrazione dell’importanza strategica ed economica dell’oro nero.
La Libia possiede il 3,5% delle riserve mondiali, più del doppio ad esempio delle riserve degli Stati Uniti, altro paese molto interessato a controllare da vicino le risorse energetiche mondiali, che chiuderebbe il cerchio dopo l’ Iraq e Siria per poi successivamente passare ai pozzi di Sudan e Iran. Almeno questi sarebbero i piani denunciati dal generale in pensione Wesley Clark su Democracy Now!
La Crisi finanziaria
D’altro canto le economie europee sono ancora in crisi e a Bruxelles proseguono i negoziati per accordare o meno scambi e prestiti in ogni direzione immaginabile.
José Sócrates, premier portoghese, è stato costretto alle dimissioni dal popolo lusitano, anche se continua ad essere l’interlocutore di fronte alla Commissione Europea. E’ interessante evidenziare che il Belgio è senza presidente da due anni, dopo lo scioglimento del consiglio dei ministri, l’inerzia democratica permette al paese di continuare a funzionare nonostante la minaccia della lotta interna tra Valloni e Fiamminghi.
Il terremoto e lo tsunami in Giappone, uniti al problema della radioattività, si sommano al sisma in Nuova Zelanda e le gravi inondazioni in Australia che hanno lasciato praticamente allo sfacelo le grandi compagnie assicurative, tra le quali il gruppo inglese Lloyd’s che ha dovuto anche far fronte a 1400 milioni di dollari di rimborsi dopo il terremoto in Cile. E stiamo parlando di un paese dove la presenza della compagnia non è così forte come negli altri paesi menzionati.
L’Europa continua a pressare l’Islanda affinché rimborsi gli speculatori inglesi e olandesi che avevano messo il loro denaro nel conto della Icesave, fallita lo scorso anno. Il Parlamento islandese, obbediente all’Europa perché ha interessi a entrare nella Comunità, ha stipulato un piano di pagamenti di 3500 milioni di euro per questi fondi speculativi con nuovi prestiti che dovrebbero pagare i cittadini stessi, ma il presidente ha posto un veto, forzando un referendum sulla questione. Il 93% degli islandesi si è rifiutato di pagare ancora una volta per salvare le banche (nel 2009 si erano già nazionalizzati i debiti delle tre banche più grandi del paese che fallendo si erano bruciate tutti i risparmi dei cittadini islandesi).
Il parlamento è tornato a insistere sul pagamento, il presidente ha posto un nuovo voto e in Aprile si terrà un nuovo referendum dall’esito incerto dato che la campagna proeuropea è molto forte.