La Thailandia è un paese generalmente molto tollerante, ma vi sono alcuni simboli che non si possono in alcun modo toccare: il re e la bandiera sono due di questi. Ne sanno qualcosa i due turisti italiani di 18 e 20 anni che lo scorso gennaio sono stati fermati dalla polizia thailandese per aver strappato delle bandiere nazionali, un gesto considerato estremamente offensivo e inaccettabile non solo dalla legge, ma anche dalla cultura locale (come dal resto accade in altre parti del mondo). Ora il “rigore thailandese” sembra estendersi anche al mondo del lavoro e alla lotta alla corruzione con il varo lo scorso mese di alcuni provvedimenti per contrastare lo sfruttamento dei lavoratori migranti ed evitare l’elevato numero di abusi etici e legali da parte di alcuni monaci buddisti, al centro di frequenti casi di appropriazione indebita dei fondi governativi destinati ai templi.
Per affrontare quest’ultimo problema le autorità thai hanno chiesto alle gerarchie buddiste una maggiore collaborazione nella rendicontazione delle finanze dei luoghi di culto. Ormsin Chivapruck, alto funzionario legato all’Ufficio del Primo ministro, il militare Prayuth Chan-ocha che ha guidato il colpo di Stato del 22 maggio 2014 assumendo la carica ad interim, ha annunciato la nuova disposizione governativa in seguito ad un incontro con tre membri del Consiglio Supremo della Sangha, il massimo organo del buddhismo locale: Phra Prom Molee, governatore ecclesiastico regionale; Phra Prom Munee, del tempio di Wat Ratchabophit Maha Simaram e Phra Prom Bundit, abate di Wat Prayurawongsa.
Con buona probabilità i monaci buddisti thailandesi riceveranno, entro i prossimi tre mesi, delle “carte d’identità intelligenti”, che sostituiranno i vecchi e poco dettagliati documenti cartacei e riporteranno le loro attività in sequenza temporale, affinché le autorità possano controllare i religiosi con maggiore facilità. Le informazioni dovrebbero includere i compiti assegnati ai monaci, quando sono stati ordinati, a quali templi sono riconducibili, quando sono stati promossi, se hanno in precedenza rinunciato ai voti e se in passato hanno commesso reati o hanno abusato di droghe. Un provvedimento importante per il nuovo corso thailandese visto che nel paese asiatico vi siano più di 32.000 monasteri con oltre 200.000 monaci buddisti la maggioranza dei quali dedica la vita a studiare conducendo un’esistenza monastica frugale e rigorosa che rischia di essere infangata a per colpa di pochi corrotti che provavano ad arricchirsi non certo grazie ad un karma migliore.
Il rigore voluto da Prayuth Chan-ocha nel mondo del lavoro, invece, è stato affrontato dal Governo con nuova legge approvata alla fine di giugno. Dalla presa di potere nel 2014, la giunta di governo ha condotto diverse campagne per regolare la forza lavoro straniera, spinta in parte dalle numerose denunce dei media sullo sfruttamento dei lavoratori non regolamentati da parte dei datori di lavoro. I lavoratori stranieri senza documenti rischieranno così multe tra i 1.000 e i 2.000 euro e pene fino a cinque anni di reclusione, mentre per i loro datori di lavoro le autorità hanno disposto ammende di 23.500 euro circa per ciascun lavoratore illegale. Il risultato per ora è che dal 28 giugno 16.000 lavoratori migranti provenienti dal Myanmar e più di 8.000 cambogiani, tutti senza regolari documenti, hanno fatto ritorno nei loro Paesi natii nonostante il provvedimento sia stato sospeso fino al 1 gennaio 2018.
Per l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) in Thailandia sono presenti 3 milioni di lavoratori migranti, soprattutto birmani, cambogiani e laotiani. In cerca di reddito questi migranti economici non di rado sono minori, la categoria più a rischio di sfruttamento, abuso e traffico di esseri umani. Molto spesso il loro stipendio è annuale e dipende da una somma forfettaria, il che significa che sono costretti a prendere in prestito denaro dal loro datore di lavoro per comprare qualsiasi cosa. Un simile accordo per lo Iom “espone i migranti ad una serie di problemi, quali malattie dovute a povertà e malnutrizione, violazioni di diritti umani e debiti”. Questa mancanza di denaro è poi il fattore principale che incentiva i migranti a restare senza documenti, dal momento che molti di loro non sono in grado di permettersi le tasse per il rilascio di un passaporto che sarebbero detratte dai loro stipendi.
Anche se un recente comunicato del ministero del Lavoro thailandese ha chiarito che il costo per un passaporto normale è di circa 200 euro, in realtà i migranti pagano quasi otto volte il dovuto e secondo alcune Ong locali è per questo che così tanti lavoratori stranieri hanno fatto ritorno nei loro paesi d’origine nel giro di poche settimane. Al momento per ottenere un maggior numero di migranti regolari, il portavoce del ministero del Lavoro Heng Sour ha dichiarato che il ministero produrrà, a partire dalla prima settimana di agosto, dei “libretti di viaggio”, dal costo di 110 Euro ed equivalenti ai passaporti, rilasciati in tutti gli uffici governativi della Thailandia. Attualmente però a maggior parte dei lavoratori non sarebbe però in grado di richiedere neanche questo documento, in quanto per ottenerne il rilascio è necessario avere con sé almeno un certificato di famiglia, una carta d’identità e il certificato di nascita. Senza questi documenti, la maggior parte dei migranti dal 2018 non avrà altra scelta se non quella di tornare volontariamente a casa.
Nonostante l’apparente frenata nei rimpatri di queste ultime settimane, dopo la sospensione della nuova legge, resta quindi da capire quanti migranti riusciranno ad avere i documenti prima della fine dell’anno e cosa accadrà nel 2018, quando le dure sanzioni economiche entreranno definitivamente in vigore. Nel frattempo, l’attuazione del decreto ha già prodotto i primi effetti negativi sull’economia della Thailandia. Alcuni gruppi industriali in primis le società di costruzioni affermano che l’80% dei lavoratori hanno già abbandonato i cantieri. Anche i rappresentanti del settore ittico hanno espresso grande preoccupazione, affermando che i lavoratori stranieri sono essenziali per quasi 30mila barche del comparto. “Il settore privato è in stato di shock – ha dichiarato Tanit Sorat, vicepresidente della Confederazione dei datori di lavoro della Thailandia – perché i posti di lavoro lasciati liberi sono quelli che i thailandesi non sono disposti ad occupare”. A quanto pare, tutto il mondo è paese e non sempre il rigore paga.