Recentemente sono stata a Minorca: tanta gentilezza da parte degli isolani, ma anche distacco. Cercando alloggio ma volendo evitare le strutture alberghiere per conoscere qualche persona del posto, ho consultato il sito hundredrooms (che tra l’altro è nato da una start-up con sede nelle Baleari, a Palma di Maiorca); attraverso loro sono arrivata ad airbnb ed ho trovato alloggio da una ragazza che di lavoro insegna catalano e fa la correttrice di bozze. Nativa di Barcellona, catalana doc e minorchina d’adozione da 12 anni a questa parte, quando parla in catalano con gli isolani, loro le rispondono in spagnolo. Ha imparato la variante minorchina del catalano per integrarsi meglio: ma le rispondono sempre in spagnolo. “Sono un po’ chiusi qui sull’isola, ma la chiusura è reciproca” – mi ha raccontato. “C’è da dire che, come a Barcellona, arrivano tanti stranieri: e nessuno si mette a studiare il catalano, parlano tutti spagnolo e questo non aiuta l’integrazione. C’è la comunità che parla spagnolo (che include un numero sempre maggiore di migranti, prevalentemente dall’Europa e dall’America Latina) e poi ci sono i locali. Ma fra di loro non comunicano, vivono mondi paralleli”.
È del 9 giugno scorso l’annuncio di Carles Puigdemont, presidente catalano, sul referendum per l’uscita della Catalogna dalla Spagna. Un referendum a lungo richiesto, che a quanto pare (a meno di smentite nei prossimi mesi) si svolgerà il primo ottobre. Una questione che ha movimentato il quadro politico catalano. Uno solo il quesito, ed estremamente chiaro: “Vuoi che la Catalogna sia uno stato indipendente, sotto forma di repubblica?”
Una domanda netta, a cui Madrid fa orecchie da mercante: secondo la Costituzione spagnola nessuna comunità autonoma può indire un referendum su questi temi, fine del discorso.
Le comunità autonome sono la modalità scelta per amministrare lo Stato spagnolo. Validate dalla Costituzione del 1978, a sua volta approvata e promulgata negli anni di transizione verso la democrazia nell’epoca post-Franco assomigliano un po’ alle regioni italiane, ma godono di maggiore autonomia ed a livello legale sono tutte sullo stesso piano (non esistono regioni o province con diversi livelli di indipendenza dal governo centrale); è la stessa Costituzione spagnola a definirne le competenze. È importante evidenziare il contesto in cui nascono: con Franco lo stato era centralizzato, e qualsiasi identità diversa da quella nazionale fortemente repressa. Negli anni della dittatura baschi, catalani, e galiziani hanno subìto una repressione analoga, se vogliamo, al caso nostrano dell’Alto Adige. La lingua basca, catalana, galiziana era vietata in qualsiasi luogo, come il tedesco con Mussolini; fortemente incoraggiati i flussi migratori da territori con un’identità spagnola più forte – soprattutto dalle più povere Murcia ed Estremadura – proprio come i flussi dal sud Italia a Bolzano e dintorni. Era solo naturale quindi che alla morte di Franco rifiorissero tutte quelle lingue e culture che erano state vietate. E che con loro rifiorissero anche tutti i nazionalismi locali.
Anche se le spinte indipendentiste sono molto forti, il risultato del referendum non è per niente scontato: secondo un sondaggio realizzato a fine marzo di quest’anno, il 44,3% dei catalani voterebbe per uscire dalla Spagna, mentre il 48,5% per rimanerci. Il dato più interessante che emerge è il desiderio di esprimersi al riguardo, come ha dichiarato il 73,6% degli intervistati: 50,3% vogliono un referendum indipendentemente da quello che dichiara il governo centrale; il 23,3% lo vuole, ma solo in accordo con Madrid.
Sia come sia, la vice presidente del governo spagnolo, Soraya Sáenz de Santamaría, si è espressa duramente: “Possono annunciare il referendum quante volte vogliono e posticiparlo di tutte le settimane che vogliono, così come possono organizzare tutti gli eventi del caso, ma il referendum non si farà”. Posizione ribadita qualche giorno fa dal primo ministro Rajoy.
Davanti a una posizione di chiusura netta, è solo normale avere un polarizzarsi delle posizioni: la Catalogna intende proseguire nel referendum, affermando che l’esito sarà vincolante in quanto espressione della democrazia e della volontà popolare. A sua volta, Madrid ricorda che potrebbe invocare l’articolo 155 della Costituzione, che le darebbe la legittimità di sospendere l’autonomia della comunità, chiudendo le scuole in modo che non vengano utilizzate come seggi elettorali e prendendo il potere sulla polizia catalana. Secondo Puigdemont la situazione è peggiorata da quando la Corte costituzionale di Madrid ha bocciato uno Statuto catalano che era stato votato dai parlamenti di Madrid e di Barcellona. Lo Statuto era stato approvato anche in via referendaria, ma per la Corte non era valido. “Da allora” – ha affermato Puigdemont – “tutte le nostre proposte sono state respinte”. C’è da dire che i catalani hanno avanzato varie alternative per restare nella Spagna a condizioni diverse: Madrid effettivamente le ha bocciate tutte.
Sarebbe interessante capire cosa ne pensa l’Europa, oggi la grande assente dalla politica. O per lo meno, dalla politica pensata mettendo al centro le persone. A quando un’autentica Europa delle regioni – intese come euroregioni – che rinunci all’idea di Stato-nazione così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi secoli? La storia dovrebbe averci insegnato che le identità non sono un qualcosa che viene tracciato con una penna sulla cartina geografica – e chi meglio di noi italiani può capire fino in fondo questo aspetto?
Naturalmente è anche vero che non solo di sogni e di identità vive un popolo. Nel caso catalano, un grosso zampino ce lo mette l’economia: la Catalogna è un contribuente netto per lo Stato spagnolo – versa più tasse di quante gliene tornino indietro per la gestione del territorio. E non si tratta di spiccioli: la Catalogna è al quarto posto per reddito pro capite a livello nazionale, ed al primo posto per il PIL (dati 2014, Instituto Nacional de Estadística ).
Secondo il nazionalismo catalano (che affonda le sue radici all’inizio del 1700), la Catalogna è vittima dello Stato spagnolo, e si comporta di conseguenza. Certo ha una sua lingua ed una sua cultura – in parte condivise anche dalla comunità valenciana e dalle isole Baleari, ma in questi luoghi il nazionalismo non è sentito in maniera così forte. Baleari, Catalogna, Spagna… quasi tre realtà diverse. Sul referendum catalano la correttrice di bozze che mi ha ospitato, conclude: “Non so come andrà a finire. Di certo, se noi catalani fossimo tutti uniti avremmo un altro impatto. Invece siamo divisi, principalmente tra Catalogna, Comunità Valenciana, ed isole Baleari. Questo non ci aiuta ad avere peso a livello politico”.
Novella Benedetti