Le truppe israeliane usano l’umiliazione, la degradazione e il terrore, caratteristiche comuni della repressione in patria e all’estero.
Il romanziere svedese Henning Mankell ci racconta di un’esperienza in Mozambico durante gli orrori della guerra civile di 25 anni fa, quando vide un giovane uomo che camminava verso di lui in abiti stracciati. “Ho notato una cosa che non dimenticherò mai finché vivrò”, dice Mankell. “Ho guardato i piedi dell’uomo. Non aveva le scarpe ma se le era dipinte sui piedi. Aveva usato i colori della terra e delle radici per sostituire le scarpe. Aveva escogitato un modo per mantenere la sua dignità”.
Queste scene evocheranno ricordi struggenti in coloro che hanno assistito a crudeltà e degrado, che sono ovunque. Un caso eclatante, anche se solo uno dei moltissimi, è Gaza, che ho avuto modo di visitare per la prima volta lo scorso ottobre. A Gaza alla violenza corrisponde la resistenza dei samidin, coloro che perseverano, per usare il termine evocativo che usa Raja Shehadeh in The Third Way (La terza via), la sua biografia sui palestinesi sotto occupazione 30 anni fa.
Ad accogliermi al mio ritorno c’erano le notizie sull’assalto israeliano a Gaza dello scorso novembre, appoggiato dagli Stati Uniti e tollerato educatamente dall’Europa, come al solito. Israele non è l’unico avversario di Gaza. Il confine meridionale di Gaza rimane in gran parte sotto il controllo della temuta polizia segreta egiziana, il Mukhabarat, che rapporti attendibili collegano strettamente alla CIA e al Mossad israeliano.
Proprio il mese scorso un giovane giornalista di Gaza mi ha inviato un articolo che descrive l’ultimo assalto del governo egiziano al popolo di Gaza. Una rete di tunnel che portano in Egitto è un’ancora di salvezza per gli abitanti di Gaza imprigionati sotto duro assedio e costante attacco. Ora, il governo egiziano ha ideato un nuovo modo per bloccare i tunnel: allagarli con le acque reflue. Intanto il gruppo israeliano B’Tselem che si occupa di diritti umani, ha riferito un nuovo espediente che usa ora l’esercito israeliano per contrastare le proteste settimanali non violente contro il Muro di separazione illegale di Israele (in realtà un Muro di Annessione). I samidin sono stati ingegnosi nel far fronte ai gas lacrimogeni, così l’esercito ha intensificato le misure contro di essi e adesso spruzza sui dimostranti e sulle case getti di un liquido che è nocivo quanto i liquami grezzi. Questi attacchi forniscono prove ulteriori del fatto che le grandi menti pensano allo stesso modo unendo la repressione criminale all’umiliazione.
La tragedia di Gaza risale al 1948, quando centinaia di migliaia di palestinesi fuggirono in preda al terrore o furono espulsi con la forza da Gaza da parte delle forze israeliane di conquista. Il primo ministro David Ben Gurion ha dichiarato che “Agli arabi della terra di Israele è rimasta oramai una sola funzione, fuggire”. È interessante notare che oggi il sostegno più forte per Israele nell’arena internazionale viene dagli Stati Uniti, dal Canada e dall’Australia, la cosiddetta Anglosfera, cioè le società di coloni che hanno alla loro base lo sterminio e l’espulsione delle popolazioni autoctone per favorire una razza superiore e in cui tale comportamento è considerato naturale e degno di lode.
Per decenni Gaza è stata una vetrina di violenze di ogni genere. L’elenco include atrocità accuratamente preparate, come l’Operazione Piombo Fuso nel 2008-2009, l’ “infanticidio”, come è stato chiamato dai medici norvegesi Mads Gilbert e Erik Fosse, che lavoravano all’Ospedale al-Shifa di Gaza con i loro colleghi palestinesi e norvegesi durante l’assalto criminale. La parola è appropriata considerate le centinaia di bambini massacrati. La violenza abbraccia quasi ogni tipo di crudeltà, per elaborare le quali gli esseri umani hanno usato le loro più alte facoltà mentali, fino al dolore dell’esilio. Il dolore è particolarmente intenso a Gaza, dove gli anziani possono ancora guardare oltre il confine verso le case dalle quali sono stati cacciati, o potrebbero guardarle se fossero in grado di avvicinarsi al confine senza essere uccisi. Secondo Sara Roy, di Harvard, una dei maggiori studiose di Gaza, una forma di punizione è stata quella di isolare un’ulteriore parte del lato di Gaza presso il confine, trasformandola in una zona cuscinetto che comprende metà della terra coltivabile di Gaza. È una “vetrina” che mostra fin dove può arrivare la violenza dell’uomo ma Gaza rappresenta anche un esempio motivante della richiesta di dignità.
Ghada Ageel, una giovane donna che è scappata da Gaza per andare in Canada, scrive di sua nonna di 87 anni, profuga, ancora intrappolata nella prigione che rappresenta Gaza. Prima della sua espulsione da un villaggio ora distrutto, “sua nonna possedeva una casa, tenute e terre, e ha goduto di onori, dignità e speranza.” Sorprendentemente, come tutti i palestinesi in generale, l’anziana donna non ha mai smesso di sperare. “Quando ho visto mia nonna, nel novembre 2012, era insolitamente felice” scrive la Ageel. “Sorpresa dal suo buon umore, le ho chiesto una spiegazione. Lei mi ha guardato negli occhi e con mia sorpresa ha detto che non era più preoccupata per il suo villaggio natale e per la vita dignitosa che aveva perduto, irrevocabilmente”. Il villaggio, ha detto la nonna ad Ageel, “è nel tuo cuore, e so anche che non sei sola nel tuo viaggio. Non scoraggiarti. Ci arriveremo.”
La ricerca della dignità è ben compresa per istinto da coloro che tengono in mano le mazze e che riconoscono che, a parte la violenza, il modo migliore per minare la dignità è l’umiliazione. Questa è la seconda natura delle carceri. Le normali pratiche nelle prigioni israeliane sono ancora una volta sotto esame. A febbraio, Arafat Jaradat, un addetto di un distributore di benzina di 30 anni, è morto mentre era detenuto in Israele. Le circostanze potrebbero scatenare un’altra insurrezione. Jaradat è stato arrestato nella sua casa a mezzanotte (orario appropriato per intimorire la sua famiglia) ed è stato accusato di aver tirato pietre e una bottiglia Molotov pochi mesi prima, durante l’attacco israeliano a Gaza di novembre. Jaradat, che quando è stato arrestato era in buona salute, è stato visto in vita per l’ultima volta dal suo avvocato, che lo ha descritto come “piegato in due, spaventato, confuso e rinsecchito”. Il tribunale lo ha rinviato in custodia preventiva per altri 12 giorni di detenzione. Jaradat è stato trovato morto nella sua cella. La giornalista Amira Hass scrive che “i palestinesi non hanno bisogno di un’inchiesta israeliana. Per loro la morte di Jaradat è una tragedia molto più grande di quella che lui e la sua famiglia hanno sofferto. Per la loro esperienza, la morte di Jaradat è una prova che il sistema israeliano usa la tortura abitualmente. Per la loro esperienza lo scopo della tortura non è soltanto incarcerare qualcuno, ma principalmente scoraggiare e soggiogare un intero popolo”.
I mezzi sono l’umiliazione, la degradazione e il terrore, caratteristiche comuni della repressione in patria e all’estero. Il bisogno di umiliare coloro che sollevano la testa è un elemento inestirpabile della mentalità imperialistica. Nel caso di Israele e Palestina c’è stato per molto tempo un consenso internazionale quasi unanime per un accordo diplomatico, bloccato dagli Stati Uniti per 35 anni, con la tacita accettazione dell’Europa.
Il disprezzo per le vittime inutili non è affatto una piccola parte della barriera contro il raggiungimento di un accordo con almeno un minimo di giustizia e di rispetto per la dignità e i diritti umani. Non è al di là dell’immaginazione che la barriera possa essere superata con un lavoro impegnato, come è stato fatto altrove. A meno che i potenti non siano in grado di imparare a rispettare la dignità delle vittime, rimarranno delle barriere invalicabili, e il mondo sarà condannato alla violenza, alla crudeltà e ad amare sofferenze.
Noam Chomsky: è professore ordinario e professore emerito di Linguistica al Massachusetts Institute of Technology, ed è autore di molti libri sulla politica estera degli Stati Uniti. Tiene una rubrica mensile per il New York Times News Service/Syndicate.
Traduzione dall’inglese di Irene Tuzi
Articolo originale: In These Times 11 aprile 2013 http://inthesetimes.com/article/14851/in_palestine_dignity_and_violence/