Il mensile «Nigrizia» di giugno fa un quadro puntuale della produzione e commercio internazionale delle armi italiane e del coinvolgimento collaborativo e interessato delle banche, che mettono a disposizione dell’industria bellica servizi di intermediazione ben remunerati e conti correnti. Come recita l’incipit, «l’industria militare è il pilastro del sistema Paese. È ciò che pensa il governo. E i dati lo confermano. Cresce la spesa e l’export di armamenti conosce un vero boom. Soprattutto verso i regimi della penisola arabica. Cala, invece, la vendita verso l’Africa. Le banche sostengono il business seppellendo ogni tentennamento etico».
Il dossier è firmato da Gianni Ballarini.
Il 19 aprile scorso si è assistito a uno scarico di blindati e armi alla cabina tabani, nel porto di Piombino. Ancorata c’era la nave Excellent, una grande imbarcazione noleggiata dal Ministero della difesa italiano, battente bandiera maltese. Dopo aver imbarcato un gran quantitativo di armamenti e aver effettuato uno scalo tecnico ad Augusta, s’è diretta a Gedda, in Arabia Saudita, attraversando il canale di Suez. Secondo l’autorità portuale di Piombino quelle armi e quei blindati erano destinati a un corso di addestramento bellico di militari italiani nella penisola arabica.
L’unico ad alzare la mano e a chiedere spiegazioni su questo singolare traffico è stato il parlamentare di Sinistra italiana-Possibile, Giulio Marcon, il quale ha giudicato «gravissima» l’iniziativa: «L’Arabia Saudita è coinvolta in Yemen in una guerra sanguinosa, è sotto il banco d’accusa dall’Onu per la violazione dei diritti umani e ha sostenuto alcune fazioni terroristiche in Medioriente. Chiediamo —ha proseguito Marcon— l’immediato blocco del trasferimento delle armi nella penisola arabica, lo stop alle esercitazioni e a ogni vendita di armi all’Arabia Saudita».
Governo silente. Media in gran parte distratti (tranne il Tirreno, Italia Oggi e Manifesto). Opinione pubblica ignara. Il tema delle spese belliche e della vendita di armi anche a paesi in conflitto è oramai sdoganato e non più avvolto da alcun tabù. Secondo il rapporto del Sipri (l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma), la spesa militare italiana è salita nel 2016 a 27,9 miliardi di dollari. Calcolata in euro corrisponde a una spesa media giornaliera di circa 70 milioni. Un flusso irrefrenabile. Ma diventato normale. Quasi ovvio.
L’ultima Relazione governativa sugli armamenti rivela come il Belpaese stia conoscendo una crescita esponenziale soprattutto nell’export armato. Il valore è aumentato dell’85% rispetto al 2015 raggiungendo il valore di 14,6 miliardi di euro. Pesa la mega vendita (oltre 7 miliardi di euro) di caccia Eurofighter Typhoon (28) al Kuwait. Si tratta della più grande commessa mai ottenuta da Finmeccanica/Leonardo. Ma nei primi 11 posti della classifica delle nazioni destinatarie troviamo Arabia Saudita (427,5 milioni), Qatar (341 milioni), Turchia (133,4 milioni) e Pakistan (97,2), che fanno parte di coalizioni di guerra o che sono conosciuti come paesi fortemente repressivi.
Nel Libro bianco per la sicurezza internazionale e la difesa, la nuova bibbia governativa, si legge come sia «essenziale che l’industria militare sia pilastro del sistema paese, perché contribuisce al riequilibrio della bilancia commerciale». Per cui merita ogni sostegno possibile.
Africa in calo
In questo contesto, si distingue l’Africa. I 136 milioni di euro, valore delle licenze italiane di esportazione nel 2016, rappresentano il secondo dato più basso dal 2008. Peggio dell’anno scorso è stato solo il 2014. Il calo è stato del 43,4% (oltre 240 milioni di euro nel 2015), con un dato particolarmente negativo per il Nordafrica (-56%). Negli ultimi 5 anni il calo di export verso la sponda sud del Mediterraneo è stato importante: si è passati dai 308,4 milioni del 2012 ai 38,5 dell’anno scorso (-87,5%). A colpire, in particolare, è la chiusura dei rubinetti con l’Algeria, uno dei paesi con cui lavoravano maggiormente le aziende belliche italiane. L’anno scorso hanno commerciato armi per 25,2 milioni di euro. Nel 2012 il dato sfiorava i 263 milioni di euro.
Nell’Africa subsahariana spicca il dato dell’Angola, non propriamente la culla della democrazia e della difesa dei diritti civili: si è passati dai pochi spiccioli del 2015 (72mila euro) agli 88,7 milioni di euro nel 2016, posizionando il paese al 13° posto della classifica dei paesi acquirenti.
Conti armati
E accanto a un’industria bellica italiana in piena espansione, il 2016 ha segnato pure l’esplosione dei conti correnti armati. Gli istituti di credito, infatti, hanno definitivamente seppellito ogni tentennamento morale per rituffarsi a corpo morto sul business delle armi. In un solo anno il valore delle transazioni bancarie legate all’export definitivo di armamenti è passato dai 4 miliardi del 2015 ai 7,2 miliardi del 2016 (+80%), frutto di 14.134 segnalazioni, rispetto alle 12.456 dell’anno precedente. Un boom inarrestabile se si osserva la crescita rispetto a soli due anni fa: +179% (2,5 miliardi di euro, nel 2014).
A occupare il primo posto è il gruppo Unicredit con oltre 2,1 miliardi di euro, pari a circa il 30% dell’ammontare complessivo movimentato per le sole esportazioni definitive, e con una crescita del 356% rispetto al 2015 (474 milioni di euro). Dopo Unicredit, compare il gruppo Deutsche bank, con oltre un miliardo di euro e al terzo posto la banca britannica Barclays bank, con oltre 771 milioni di euro e con una crescita del 113,8% rispetto ai dati del 2015 (360,9 milioni).
Sorprendente la “performance” della bresciana Banca Valsabbina. In un anno le sue transazioni armate sono cresciute del 763,8% passando dai 42,7 milioni di euro del 2015, ai 369 milioni circa dell’anno scorso. Questo istituto –che ha la sua sede a Vestone, piccola realtà della Comunità montana della Valle Sabbia, e la direzione generale a Brescia– evidentemente rappresenta un punto di riferimento per tutto il settore armiero della zona.
Sono i paesi mediorientali, in genere, a essere ottimi clienti delle banche, avendo fatto transitare sui conti bancari del Belpaese una massa enorme di denaro: quasi 4,3 miliardi di euro, pari al 59% del totale. Anche i paesi africani fanno un balzo in avanti, passando dai 300 milioni del 2015 ai quasi 320 milioni del 2016. È l’area subsahariana a incidere maggiormente, con una crescita del 153% (dai 42 milioni del 2015 ai 106,4 dell’anno scorso). Le banche armate, evidentemente, generano fiducia anche al di là del Mediterraneo.
Fonte: Nigrizia n.6 – Giugno 2017