A che cosa serve lo Stato? Una risposta a questa semplice e fondamentale domanda si può trovare nel Rapporto ISTAT “La redistribuzione del reddito in Italia” pubblicato il 21 giugno. Infatti, nell’introduzione al Rapporto si legge: «Il sistema di tasse e benefici ha tre obiettivi fondamentali: 1) redistribuire il reddito in modo da conseguire una maggiore equità; 2) proteggere le persone dal rischio di povertà e di esclusione sociale; 3) finanziare la produzione di beni e servizi pubblici. Il reddito primario, guadagnato sul mercato ‘a monte’ dell’intervento pubblico, è infatti normalmente caratterizzato da un elevato grado di diseguaglianza, che dipende dalle differenti dotazioni individuali e familiari di risorse (lavoro, capitale reale e finanziario), dai diversi rendimenti delle stesse (salari, profitti e interessi) e infine dalle diseguali opportunità di occupazione e di impiego dei capitali. L’intervento pubblico può aumentare il reddito delle famiglie erogando trasferimenti monetari, come le pensioni e gli assegni familiari, o diminuirlo prelevando contributi sociali e imposte. Queste politiche determinano una maggiore equità se, come accade normalmente, i trasferimenti e il prelievo riducono le distanze fra i redditi disponibili delle famiglie».
Chiarito questo, è interessante verificare la quantità e la qualità dell’intervento pubblico nella politica di redistribuzione, per altro prescritta dall’art. 53 della Costituzione. Anzitutto, va detto che nel 2016 in Italia l’indice di disuguaglianza è leggermente diminuito: siamo scesi dal 30,4 al 30,1 (si tratta dell’indice Gini moltiplicato per cento: 0 sarebbe la massima uguaglianza mentre 100 rappresenterebbe la massima disuguaglianza). In realtà, senza considerare l’intervento pubblico, l’indice di disuguaglianza sarebbe di 45,2. Pertanto l’incidenza dell’intervento dello Stato è significativa, poiché l’indice di disuguaglianza scende di 15,1 punti, cioè di un terzo del suo valore. Ma in che cosa consiste l’intervento pubblico? Si tratta di due tipologie: i trasferimenti (dallo Stato ai cittadini) e i contributi (dai cittadini allo Stato). Da una parte il sistema pubblico fornisce un aiuto ai cittadini: le pensioni e gli interventi assistenziali costituiscono i principali strumenti per trasferire risorse dalle persone attive dal punto di vista lavorativo a quelle inattive, perché anziane, disoccupate, inabili o minori. Dall’altra il sistema tributario interviene sul reddito prodotto, prelevando contributi sociali obbligatori e imposte. Il risultato finale (reddito più trasferimenti meno prelievi) è il reddito reale, cioè quello disponibile delle famiglie. L’ISTAT segnala che la riduzione di 15,1 punti dell’indice di povertà è dovuta per 10,8 punti ai trasferimenti (fondamentalmente le pensioni) e per 4,3 punti al prelievo (contributi e imposte).
Se in linea generale il sistema sembra funzionare in modo positivo, entrando nel dettaglio si possono cogliere non poche anomalie, che il legislatore dovrebbe considerare, per interventi correttivi e migliorativi. L’ISTAT divide in cinque gruppi di pari popolazione le famiglie italiane raggruppandole per fasce di reddito: dal 20% più povere fino al 20% più ricche. Sulla base di questa suddivisione il Rapporto mostra gli spostamenti provocati dall’intervento pubblico rispetto al reddito primario (realizzato a monte degli interventi pubblici).
Osservando il primo quinto, cioè quello delle famiglie con reddito più basso, si vede che il 56,6% di questo gruppo – grazie all’intervento dello Stato – riesce a passare nei quinti successivi. Sembra un fatto positivo, ma soltanto il 26,6% sale nel quinto confinante (il secondo), mentre il 30% viene proiettato nel terzo, nel quarto e persino nel quinto gruppo di reddito. Dato che l’intervento pubblico è dovuto principalmente alle pensioni, ciò spiega questi passaggi dal primo fino al quinto gruppo. Viene però il dubbio che questa spinta data dallo Stato sia persino eccessiva, cioè che esistano pensioni troppo diversificate tra loro. A confermare il dubbio è il dato del secondo quinto, cioè quello successivo a quello dei più poveri. A valle dell’intervento pubblico il 49,6% scende nel primo quinto. Il dato pare mostrare una dinamica un po’ contraddittoria, poiché l’intervento pubblico di fatto scambia metà delle famiglie del primo quinto con quelle del secondo quinto, il che pare poco equilibrato.
Se consideriamo invece il versante dei prelievi, emerge con chiarezza che la progressività dell’imposta è insufficiente in particolare per i redditi più elevati. Lo si capisce chiaramente dalle percentuali degli arretramenti dai quattro quinti successivi al primo. Come già segnalato, dal secondo quinto scendono al primo il 49,6% delle famiglie, dal terzo retrocedono il 56,9%, dal quarto il 45,4%, mentre dal quinto scendono soltanto il 28,7% delle famiglie. In questo “ascensore reddituale”, chi viene condizionato di meno dall’intervento pubblico sono i più ricchi, cioè proprio quelli che potrebbero sopportare di più le conseguenze di un prelievo. Una revisione degli scaglioni fiscali, delle aliquote delle imposte dirette e delle detrazioni sarebbe sicuramente opportuna per un distribuzione più equilibrata del carico fiscale.
La suddivisione dei redditi per fasce d’età rivela un Paese che attua un intervento pubblico sbilanciato a favore dei più anziani, che penalizza i più giovani e persino i minori. Infatti, «l’analisi delle stime del rischio di povertà per le diverse classi di età mostra, oltre alla evidente funzione di sostegno delle pensioni per le persone di 65 anni e più, anche un aumento del rischio di povertà, dopo l’intervento pubblico, per i giovani nella fascia di età dai 15 ai 24 anni (dal 19,7 al 25,3%) e per quelli dai 25 ai 34 anni (dal 17,9 al 20,2%). Un limite evidente del sistema dal punto di vista dell’equità è la debole tutela accordata ai minori in presenza di bassi livelli del reddito familiare: per effetto dell’intervento pubblico il rischio di povertà aumenta dal 20,4 al 25,1% per chi ha meno di 14 anni». La conferma di questa iniquità sta anche nei dati di passaggio da un quinto all’altro: «soltanto il 16,3% degli individui fra i 25 e i 34 anni del quinto più povero avanza nella scala dei redditi grazie all’intervento pubblico. Nello stesso tempo, fra gli individui dai 25 ai 34 anni del quinto più povero di reddito primario, l’83% dopo l’intervento pubblico non migliora la propria posizione, mentre il 65% di quelli del secondo retrocede». Per spiegare questa situazione il Rapporto dell’ISTAT sottolinea come «lo svantaggio relativo dei giovani in età attiva non dipende tanto dalla priorità assegnata dal sistema alla redistribuzione previdenziale, ma soprattutto dalle difficoltà di ingresso e di permanenza nel mercato del lavoro, segnalate dagli elevati tassi di disoccupazione femminile e giovanile». Invece, per quanto riguarda il quinto dei più ricchi tra i giovani tra i 25 e i 34 anni, vale quanto già detto per i ricchi in generale, poiché soltanto il 31,1% retrocede (il 30% al quarto quinto). Anche nel caso dei giovani, i ricchi restano i più tutelati.
Se andiamo a cercare la tipologia di famiglie più a rischio povertà dopo l’intervento pubblico, scopriamo che si tratta di quelle con un solo genitore e con almeno un figlio minore: nel quinto più povero passano dal 20% al 41,6% di presenze. Non sono valorizzate nemmeno le coppie con figli minori: soltanto il 5,2% dopo l’intervento pubblico riesce a salire dal primo quinto di reddito. Invece, salgono dal primo quinto il 61% le coppie senza figli. I dati dimostrano con estrema evidenza come in Italia le famiglie con figli minori ricevano «una insufficiente tutela dei carichi familiari» o addirittura vengano penalizzate dalle politiche pubbliche.
Tra gli interventi di trasferimento attuati negli ultimi anni c’è anche il bonus degli 80 euro, introdotto dal Governo Renzi. I dati del 2016 danno ampiamente ragione a chi aveva criticato questo provvedimento, poiché non si può considerare a favore della redistribuzione del reddito. Paradossalmente ne hanno beneficiato più i ricchi dei poveri. Infatti, l’ISTAT segnala che «per effetto dell’incapienza e della presenza di più lavoratori dipendenti nelle famiglie a reddito medio-alto, il bonus non risulta concentrato sui redditi più bassi. Sia la percentuale di famiglie beneficiarie, sia l’importo medio del beneficio nel quinto più povero sono inferiori rispetto a quelli dei quinti con redditi più elevati». Per la precisione: il 28,2% delle famiglie più povere ha ricevuto un bonus annuale medio di 876 euro, il 37,7% di quelle del successivo quinto 1.018 euro, il 39,9% delle famiglie dal reddito medio 1.108 euro, il 45,9% delle famiglie ricche del quarto quinto 1.107 euro e il 29,6% di quelle del quinto più elevato di reddito ha avuto mediamente 1.028 euro grazie al bonus. Le risorse utilizzate per gli 80 euro mensili potrebbero essere spese meglio e con maggiore equità: su questo non ci sono dubbi.