Negli ultimi decenni sono molti gli ergastolani che si sono rivolti alle istituzioni, in modo individuale o collettivo, per chiedere che la loro condanna al carcere a vita fosse tramutata in pena di morte.
Riporto un estratto di un vecchio articolo uscito sul quotidiano “La Repubblica” di Alberto Custodero, del 31 maggio 2007:
Meglio morire che restare a vita in carcere. Trecentodieci ergastolani si sono rivolti al capo dello Stato chiedendogli di essere condannati a morte. “Signor presidente della Repubblica, siamo stanchi di morire un pochino tutti i giorni. Abbiamo deciso di morire una volta sola, le chiediamo che la nostra pena dell’ergastolo sia tramutata in pena di morte perché la nostra condanna è una morte bevuta a sorsi. Non ci uccidono, peggio: ci lasciano morire per sempre. L’ergastolo ti fa morire dentro a poco a poco. La condanna perpetua rende inutile la vita, fa sembrare il futuro uguale al passato. All’ergastolano rimane solo la vita. Ma la vita senza futuro è meno di niente”. È stato un ergastolano, Carmelo Musumeci, uno dei primi, forse il primo, ad avere avuto l’idea di invitare i detenuti nelle sue condizioni a mettersi d’accordo e smettere tutti insieme di bere la morte a sorsi. Il tam-tam carcerario ha fatto il resto: la lettera con la richiesta di trasformare l’ergastolo in pena di morte è passata di prigione in prigione, di cella in cella, di mano in mano. E 310 copie firmate da altrettanti ergastolani sono arrivate al Quirinale e, per conoscenza (come prima firmataria del ddl), anche a Maria Luisa Boccia. Ha chiesto al Presidente se intendesse rispondere a quelle missive, la senatrice di Rifondazione, e Napolitano le ha risposto attraverso il segretario generale Donato Marra. “Il Capo dello Stato – si legge nella lettera del segretario generale della Presidenza della Repubblica – guarda con grande attenzione ai temi della giustizia e, tra questi, a quelli che attengono alla libertà delle persone e alla funzione della pena”. Più volte il Presidente ha auspicato un “ripensamento dell’intero sistema sanzionatorio e della gestione delle pene”.
A distanza di un anno e mezzo avevo scritto di nuovo al Presidente della Repubblica:
L’anno scorso 310 di noi ergastolani si sono rivolti a Lei, chiedendo di tramutare la nostra pena dell’ergastolo in condanna a morte. Si ricorda? La Sua risposta non è ancora arrivata. Nel frattempo però siamo rimasti in 303. Questo perché nell’attesa 7 di noi si sono tolti la vita, per liberare se stessi e le proprie famiglie dal peso della condizione che viviamo. L’ultimo in tempo cronologico è stato il nostro compagno Giuseppe, che si è tolto la vita nel carcere di San Gimignano (Fonte: ”Liberazione” del 17/07/2008). A chi toccherà adesso?
In questi ultimi tempi nel nostro Paese si sta discutendo la legalizzazione dell’eutanasia, o il suicidio assistito, e molti ergastolani sperano che l’eventuale approvazione di questa legge possa riguardare anche la loro situazione.
Ecco la testimonianza di un ergastolano che ha tentato di uccidersi:
Fu il giorno più lungo della mia vita. Andavo avanti e indietro. Su e giù. Da una parte all’altra delle pareti della mia cella. Mi sembrava che la morte camminasse accanto a me. Ero stanco di pensare. Troppo stanco per vivere. Da tempo avevo deciso di morire. Non potevo continuare a vivere una vita inutile. Era mezzanotte. La conta era già passata. C’era un rumoroso silenzio nell’aria. Era l’ora. Feci il cappio con la cintola dell’accappatoio. L’attaccai alle sbarre della finestra. Levai gli occhi verso il cielo. Non c’era la luna. Non c’era neppure una stella. C’era solo la morte che mi aspettava. Illuminato dai fari del muro di cinta, il cappio gettava un’ombra sinistra sul pavimento della cella. Salii sullo sgabello. Udivo a malapena i battiti del mio cuore. Faceva freddo, ma io ero fradicio di sudore. Mi misi il cappio intorno al collo. Diedi un calcio allo sgabello. Sentii una terribile morsa che mi stringeva sul collo. Mi sentii soffocare. Sempre di più… sempre di più. Sentii il mio corpo barcollare da destra a sinistra, come un pendolo. Mi mancò il respiro. Il petto mi sussultò. I muscoli del collo si torsero. La bocca si aprì sempre più larga per cercare aria. La vista si annebbiò. I colori svanirono. Mi sentivo galleggiare nello spazio. Non sentivo più il peso del mio corpo. Mi sentivo leggero. Sentivo che la testa era circondata dalle stelle. Pensai che era bello morire. Non sentivo dolore. Non stavo sentendo più nulla. Forse perché stavo incominciando a sentirmi morto. Iniziai a vedere in bianco e nero. Mi sembrò di non vedere, né udire, più nulla. Mi accorsi che stavo morendo. Mi sentii contento da morire perché pensai che presto la mia pena sarebbe finita. Non stavo soffrendo. Sembrava che stesse morendo un altro al posto mio, pensavo che presto non avrei avuto più nulla di cui preoccuparmi perché avrei finito di scontare la mia pena dell’ergastolo. Ad un tratto però la cintola dell’accappatoio si spezzò e caddi sul pavimento della cella. Maledizione! Ero ancora vivo. Non ci ho ancora riprovato, ma ci sto pensando.
Aprile 2017