di Ahmed Alkabariti

Cinque anni fa l’ONU ha fatto una delle dichiarazioni più shockanti sul futuro della Striscia di Gaza: non sarà più un “luogo vivibile” entro il 2020. Da allora una serie di delegazioni straniere e di conferenze stampa di personalità preoccupate ha attirato una maggiore attenzione sulla catastrofe imminente.

Nel 2014 l’Autorità palestinese dell’acqua ha dichiarato che l’acqua di Gaza è, tra il 90% e il 95%, “inadatta al consumo”. Tale quota non ha fatto in seguito che aumentare. L’anno successivo Oxfam ha stimato che la ricostruzione successiva alla guerra del 2014 potrebbe “durare più di cent’anni”, a causa dell’occupazione israeliana, che limita i materiali da costruzione. Nello stesso anno la Banca Mondiale ha dichiarato: “Circa l’80% della popolazione di Gaza riceve qualche forma di assistenza sociale, e circa il 40% resta al di sotto della soglia di povertà”.

L’Osservatorio euro-mediterraneo dei diritti dell’uomo ha inoltre rivelato che, a inizio 2016, gli abitanti di Gaza non resistono in questo ambiente devastato: secondo un comunicato, “il 55% soffre di depressione clinica”.

La popolazione non ha altra scelta che perseverare, nonostante l’atroce realtà di vita dopo decenni di occupazione, tre guerre devastanti e una scissione governativa, che hanno ogni sorta di conseguenza rischiosa in una delle zone più densamente popolate al mondo.

Mentre i quasi due milioni di abitanti di Gaza prendono coscienza di tali nuove angoscianti statistiche, non sono messi in guardia da premonizioni sconvolgenti; preferiscono piuttosto affrontare queste dichiarazioni con impassibilità. Anche se la loro vita è direttamente toccata dal fatto che nel 2020 la loro terra non sarà più abitabile, girano lo sguardo verso i loro comportamenti quotidiani che non rivelano alcuna seria inquietudine.

In un mercatino delle pulci molto frequentato nel centro di Gaza, i Palestinesi si descrivono come in uno stato di emergenza costante, aggravatosi durante la guerra del 2014 (Operazione “Protective Edge”, NdT). Al termine del conflitto durato 51 giorni contro Israele, un quarto della popolazione di Gaza si trovava in stato di insicurezza alimentare e più di 10 mila abitazioni, 15 ospedali e l’unica centrale elettrica di Gaza erano in macerie. La ricostruzione è stata marginale a causa delle limitazioni sull’importazione dei materiali da costruzione, che ha reso i prodotti usati nei mercati all’aperto ancora più preziosi.

 

Adnan Abou Shamala, 87 anni, antiquario a Gaza

“La comunità internazionale continua a ripetere che c’è una crisi a Gaza, e fa dichiarazioni allarmanti. Noi avevamo paura in passato, ma oggi le persone sono diventate più insensibili”, dice Adnan Abou Shamala, 87 anni, un antiquario di bazar. “Sono stato ad Amman quattro anni fa, ho sentito le persone ridere forte nei caffè. Ho detto alla gente da quelle parti che non avevo neppure sorriso da sei anni a causa della tragica situazione nella mia patria”.

“Non occorre grande sforzo per trovare scene di disperazione”, prosegue, “basta sedersi ad un angolo di strada e osservare. Vi potrete allora fare un’idea della disperazione solo guardando volti che non hanno mai sorriso”.

“Qui non siamo né vivi né morti, viviamo sospesi come se non ci fosse nulla di certo. La paura e l’impotenza dominano le vite delle persone”, aggiunge Abou Shamala, spiegando di non fare più riserve con le razioni, anche se il cibo può venire a mancare. “Lo stoccaggio di farina, olio e zucchero era una misura preventiva in caso di urgenza, ma oggi non facciamo più scorte come ne facevamo nelle guerre del 1948 e del 1967”, dice.

 

 

Hani Mezaini, 38 anni, fabbricante di tende nella città di Gaza

Hani Mezaini, 38 anni, fabbricante di tende con uno stallo sul mercato, ha una visione pessimista della comunità internazionale e delle organizzazioni di soccorso che citano spesso la sua città come zona di catastrofe. Dice che non è altro che un gioco di calcolo politico destinato alle orecchie dei funzionari e non al beneficio degli abitanti di Gaza.

“Per tutta la vita non ho conosciuto altro che conflitti, fazioni politiche e occupazione”, dice pensieroso Mezaini. “Chi mi avvertirà dunque di una crisi imminente e mi persuaderà a cambiare idea? Non cambierà nulla a Gaza fintanto che Israele continuerà la sua occupazione”.

Hani Mezaini mostra una foto di lui dall’aspetto molto più giovane, scattata in Cina

Sul suo cellulare Mezaini ci mostra una foto di lui fatta in Cina un anno e mezzo fa. Sembra davvero avere l’aria più giovane di dieci anni.

“Invecchiamo di dieci anni per ogni anno trascorso a Gaza”, dice Mezaini, aggiungendo che qui la gente si interessa a questioni più a breve termine che quelle previste dalle Nazioni Unite di qui al 2020. “Riuscite a comprendere lo stato fisiologico di una terra che vive nel blackout per 12 ore al giorno a causa della mancanza di energia elettrica?”

“Se si lanciano dei preallarmi, questi spingeranno la gente a emigrare e ad abbandonare Gaza a favore degli israeliani, e quindi le persone sviluppano le proprie difese di insensibilità per adattarsi al deteriorarsi della situazione”, spiega Mezaini.

Compiti a lume di candela

Lo psichiatra Jamil Tahrawi conduce ricerche sui traumi infantili a Gaza e dice che coloro che sono stati esposti a crisi successive evitano abitualmente i dirigenti e i decisori. Secondo lui i palestinesi hanno acquisito questo atteggiamento e diffidano delle dichiarazioni delle Nazioni Unite o le ignorano: “la popolazione di Gaza vive in uno stadio di estinzione psicologica”, sostiene.

Professore di Scienze politiche all’Università Al Azhar a Gaza, Naji Shurrab ammette che gli avvertimenti negativi su ciò che succede a Gaza hanno l’effetto nefasto di causare frustrazione piuttosto che speranza. “I dirigenti delle comunità locali e quelli che influenzano l’opinione pubblica contribuiscono involontariamente a diffondere grida d’allarme ingiustificate che deteriorano quel poco di morale che resta nelle persone”, dice Shurrab, “ma agiscono in buona fede cercando di attirare l’attenzione del mondo su questa tragedia umanitaria intollerabile”.

 

 

Rifugiati palestinesi ricevono cibo dall’UNRWA (Agenzia ONU per l’assistenza e la ricostruzione a favore dei rifugiati di Palestina nel Vicino Oriente)

 

Famiglia palestinese a Gaza

 

Una ragazzina palestinese davanti casa sua nella città di Gaza

 

La penuria di gas costringe i panettieri ad alimentare i propri forni con legna

Foto: Mohammed Assad

Fonte : http://mondoweiss.net/2017/02/suspended-perpetual-crisis/

 

Traduzione dal francese di Diego Guardiani

 

 

L’articolo originale può essere letto qui