A Bologna gli abitanti di via Duse e dintorni hanno dato vita a una social street con 150 iscritti, rimangono in contatto tramite Facebook, si incontrano in uno dei 5 bar della via per il social coffee e si aiutano a vicenda. C’è chi chiede in prestito il trapano, qualcuno annaffia le piante di chi va in vacanza o tiene il bimbo della vicina in caso di emergenza. Ma anche il territorio diventa oggetto di attenzione e cura: la social street ha presentato un progetto per fare di via Duse una zona con il limite di velocità a 30 km all’ora con attraversamento pedonale rialzato. La social street di via Duse e dintorni è solo una delle tante “vie sociali” nate in Italia e nel mondo (la prima è stata la bolognese via Fondazza nel settembre 2013) e una delle esperienze di innovazione sociale che coinvolgono molte città, tra cui Bologna.

 

Oltre alle social street ci sono i patti di collaborazione, come quello che a Bologna coinvolge alcuni genitori riuniti in un comitato per rivitalizzare il Parco della Zucca, e le Comunità in transizione, 27 in Italia di cui 12 nella Città metropolitana di Bologna, gruppi locali che cercano di rendere le città resilienti di fronte ai cambiamenti esterni attraverso lo sviluppo di stili di vita sostenibili dal punto di vista ambientale ed ecologico. Tutte queste esperienze sono oggetto di “Nuovo volontariato o cittadini del futuro? Social street, patti per i beni comuni, iniziative di transizione nell’area metropolitana bolognese”, un’inchiesta multimediale realizzata da Volabo, il Centro servizi per il volontariato, in collaborazione con Bandieragialla.

 

In Italia su 7 milioni di volontari, circa 3 milioni non sono iscritti ad associazioni (dato Istat). Quali connessioni e quali differenze hanno queste esperienze di innovazione sociale con il volontariato tradizionale? Quali possibili evoluzioni prospettano al volontariato e al Terzo settore locale? E che possibilità di accoglienza e trasformazione ha il volontariato di fronte a queste nuove espressioni di cittadinanza attiva? Sono queste le domande da cui è partita l’inchiesta realizzata da Volabo in collaborazione con Bandieragialla. “Certamente non è mai esistito un solo tipo di volontariato, né tanto meno un volontario tipo, tuttavia queste nuove forme spontanee di partecipazione segnano una differenza molto marcata rispetto al volontariato a cui eravamo abituati, un volontariato motivato da grandi ideali e grandi speranze per un futuro migliore conseguente alle scelte e alle azioni dell’immediato – scrive Giancarlo Funaioli, presidente di Asvo-Associazione per lo sviluppo del volontariato, nell’introduzione all’inchiesta – Il nuovo volontariato è almeno in parte frutto dei tempi: il modello unico di stampo fortemente economico che accompagna la nostra società in questa fase storica ha tolto molto spazio alla speranza di cambiare il mondo in cui viviamo. E quindi forse si guarda all’immediatezza dell’azione, senza avere la possibilità di proiettarsi oltre i propri orizzonti contingenti”.

 

Volontariato o innovazione sociale? “Probabilmente è ancora presto per dirlo – continua Funaioli –. Proprio la relazione con gli altri e la volontà di portare avanti progetti condivisi, la consapevolezza che affrontare temi complessi richiede impegno e formazione, che il tempo limitato che si può dedicare alla collettività non equivale a un impegno aleatorio possono costituire il terreno comune su cui nascono e si sviluppano queste sperimentazioni sociali. Se queste nuove forme di partecipazione riusciranno a mantenere vivi gli aspetti di solidarietà e coesione – conclude – non solo avranno vinto le stesse sfide del volontariato più comune, ma avranno anche contribuito a un’evoluzione di quello stesso volontariato nel mondo odierno”. 

 

Da: Redattoresociale.it