Dai condomini solidali agli alberghi sociali. Si stanno diffondendo negli ultimi anni anche in Italia nuove politiche abitative fondate sui rapporti di collaborazione e buon vicinato: il cosiddetto Social housing. Ce ne parla in questo articolo Alessia Canzian, che per due anni ha vissuto come coabitante solidale a Torino.
In Italia il diritto alla casa non è sancito dalla legge; nella Costituzione si sancisce il diritto alla proprietà privata della casa, viceversa nell’Unione Europea il diritto alla casa è un diritto opponibile. Pertanto nel 2006 la Regione Piemonte ha cambiato il suo statuto per allinearlo alle normative europee, inserendo tra i diritti dei cittadini piemontesi il diritto alla casa. Nello Statuto della Regione Piemonte l’Articolo 10 sancisce il Diritto all’abitazione e tutela del consumatore; inoltre al comma 1 specifica: “La Regione riconosce e promuove il diritto all’abitazione”.
Al di là della normativa, il problema risulta molto più concreto dato che disuguaglianza, disgregazione e conflittualità sociale costituiscono un pesantissimo ostacolo allo sviluppo anche economico delle aree urbane. Viceversa progetti come condomini solidali o coabitazioni solidali possono essere una valida soluzione anche a livello di previdenza sociale; una forma di previdenza, tra l’altro, puramente umana e fondata su rapporti di sincera amicizia e buon vicinato.
L’interesse per queste realtà nasce innanzitutto dalla mia esperienza diretta di coabitante solidale, avendo vissuto 2 anni in un social housing a Torino. Da questa esperienza ho avuto modo di constatare che queste realtà possono veramente essere un punto di partenza positivo per la realizzazione di una società diversa e fondata su nuovi principi, in cui ognuno possa sentirsi fautore di cambiamento.
Ma cerchiamo ora di entrare nel vivo della questione e comprendere che cosa si intende con l’espressione social housing. Il termine inglese è semplicemente tradotto con “edilizia sociale”. Nel testo delle “Linee guida per il social housing in Piemonte” si legge che, per estensione, il termine Social Housing diventa “ciò che attiene all’offerta sociale di abitazioni”. Una definizione di questo tipo risulta abbastanza vaga e facilmente interpretabile in modi diversi, come dimostrano anche le diverse realtà che sono presenti sul territorio torinese che a breve vi mostrerò. Tuttavia, si evince che il Social Housing comprende tutto ciò che è collegato alla casa, o all’abitare, ma aggiunge un qualche riscontro anche sul sociale.
Sul sito della Regione Piemonte il termine Social Housing viene definito come: “Alloggi e servizi con forte connotazione sociale, per coloro che non riescono a soddisfare il proprio bisogno abitativo sul mercato (per ragioni economiche o per assenza di un’offerta adeguata) cercando di rafforzare la loro condizione”.
Questa definizione è ancora diversa, perché non è più soltanto riferita agli alloggi, ma anche a servizi. Inoltre afferma che tali servizi cercano di “rafforzare” una “condizione” implicitamente svantaggiata. Pertanto, il Social Housing acquisisce anche un valore attivo di supporto sia materiale, come alloggi, sia di sostegno, come servizi.
I programmi comunali di Social Housing nascono a Torino a partire dal 2008, con l’intento primario di offrire un sostegno che oltrepassasse il semplice fornire l’accoglienza in una casa, ma che comprendesse anche l’erogazione di un servizio. In questa logica dal 2009 il Comune di Torino ha approvato il piano per il social housing comunale richiesto dalla Regione, assegnando ai comuni piemontesi il ruolo di coordinamento e di regia dei diversi progetti.
Pertanto sorgono accanto all’edilizia sovvenzionata, a totale carico dello Stato e destinata alla locazione permanente e all’edilizia agevolata, attuata in parte con le risorse degli operatori e generalmente destinata alla vendita, nuove politiche abitative che appunto prendono il nome di Social Housing. Parallelamente, correlato anche all’aumento del precariato giovanile, si è cercato di fornire una risposta anche a quello che non era un disagio sociale, ma una vulnerabilità. Quindi, sostanzialmente, a Torino ci troviamo in presenza di alcune categorie di interventi di abitare sociale che sono ben diversi tra loro.
Partiamo dalle residenze sociali, o alberghi sociali. L’obiettivo primario è di offrire ospitalità temporanea in città a costi calmierati. Queste soluzioni sono pensate soprattutto per la fascia grigia della popolazione, ovvero quelle persone che, pur avendo un lavoro, non riescono più a far fronte ai rischi e ai bisogni di carattere economico-sociale.
Le residenze collettive sociali, o i condomini solidali, sono realtà studiate per valorizzare le capacità dei condomini al fine di fornire ai singoli una rete di auto mutuo aiuto tipica della famiglia tradizionale.
Le coabitazioni solidali sono progetti promossi dal Comune di Torino con l’intento di creare un’integrazione sociale e un mix socio-culturale nei quartieri di edilizia residenziale pubblica. La figura del coabitante è di fatto un giovane tra i 18 e i 30 anni, inserito negli stabili con lo scopo di creare attività ricreative per gli inquilini, monitorare le situazioni difficili e migliorare le condizioni di socialità all’interno degli stabili. L’intento di fondo è di avviare un monitoraggio dal basso e tra pari, nel senso che i volontari non sono operatori o professionisti, ma hanno semplicemente il ruolo di essere buoni vicini di casa. I giovani coinvolti nel progetto, dunque, possono usufruire di un monolocale a prezzo agevolato e in cambio devono rendersi disponibili a effettuare dieci ore di servizio volontario all’interno del condominio.
Infine c’è il co-housing, che di per sé è una scelta di vita, una forma di abitare condiviso, in cui le persone alternano momenti individuali a momenti di comunità e condivisione. A Torino solo molte le realtà di co-housing che stanno nascendo, o che sono sempre esistite: basti pensare agli studenti universitari che condividono gli alloggi.
Il passaggio dalla casa popolare intesa come edificio, per sempre e per i più poveri, all’abitare sociale, come funzione risolta in una pluralità di modi e che offre una risposta ai bisogni emergenti legati alla fragilità sociale pensata anche per nuovi utenti, è un passaggio lento e graduale. Tuttavia, l’instabilità che stiamo vivendo oggi è un problema che coinvolge tutti. Molti sono i giovani precari nel lavoro e le famiglie a rischio. Per una famiglia media, basta la perdita di un reddito per cadere nel profilo della fascia grigia. Personalmente reputo che l’abitare sociale debba essere inteso come un cambiamento radicale, una sorta di passaggio da una vita chiusa nelle proprie mura domestiche a una vita condivisa, dove ognuno possa sentirsi libero di poter chiedere un aiuto concreto al proprio vicino.
La nostra società oggi è ancora basata sul modello individualistico; forse sarebbe più opportuno ipotizzare un modello di vita che possa permettere una transizione dal modello precedente a uno nuovo, basato sulla condivisione e sul sostegno.
I gruppi di coabitazione per giovani, anziani o famiglie; le residenze collettive, per singoli da sostenere e accompagnare; gli alberghi sociali, per l’emergenza o brevi periodi; i condomini solidali, per l’auto mutuo aiuto; le coabitazioni solidali, per l’accompagnamento sociale nei quartieri difficili di edilizia residenziale pubblica sono solo possibili strumenti. Il vero cambiamento deve avvenire soprattutto a livello individuale, con l’aumento delle persone che intendono percorrere questo sentiero di collaborazione e reciproca solidarietà.