Il 7 ottobre sarà ricordato come un giorno storico nella lotta alla pena di morte in Giappone.
Durante il suo congresso annuale la Federazione degli ordini degli avvocati, che rappresenta circa 37.600 associati, ha approvato una dichiarazione che chiede l’abolizione della pena capitale entro il 2020.
Per la prima volta, dunque, si contesta ufficialmente la pena di morte dal punto di vista legale in un paese dove, da quando 2012 Shinzo Abe è stato nominato primo ministro, sono avvenute 16 esecuzioni capitali.
La pena di morte in Giappone è una sorta di ergastolo che termina con un’impiccagione.
I condannati a morte passano spesso decenni in attesa dell’esecuzione, invecchiando nel più completo isolamento carcerario. La data dell’impiccagione non viene comunicata in anticipo, col risultato che ogni incontro con le famiglie viene vissuto da tutti come l’ultimo.
A far prendere posizione agli avvocati su un tema sul quale praticamente non c’è alcun dibattito pubblico sono stati certamente due casi.
Hakamada Iwao, condannato a morte nel 1968 per accuse fabbricate dalla polizia durante gli interrogatori, è stato rilasciato nel 2014 in attesa di un nuovo processo. La sua salute mentale dopo quasi mezzo secolo nel braccio della morte è compromessa. Ma almeno è vivo e potrebbe abbandonare questo mondo di morte naturale e da innocente.
Invece, l’anno scorso Okunishi Masaru è morto non con la corda al collo ma in un letto d’ospedale, a 89 anni. Ne aveva trascorsi 46 in attesa dell’esecuzione, provando invano per nove volte a chiedere un nuovo processo che lo scagionasse dall’accusa di aver ucciso cinque donne.